Che fine ha fatto Zonin? Linkiesta ripercorre le “tappe” dell’ex “Re” di Vicenza e della BPVi

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Coviello sempre sotto attacco da parte di Zonin (nella foto con avv. Enrico Ambrosetti)
Coviello sempre sotto attacco da parte di Zonin (nella foto con avv. Enrico Ambrosetti)

La saga dei rimborsi è ancora lontana dalla conclusione, nonostante l’accordo raggiunto dal governo con le associazioni degli investitori. Il miliardo e mezzo di euro già stanziato, è alla ricerca di un sistema legittimo per essere erogato, perché non sfugge a nessuno che l’italica pretesa di intascare i profitti e farsi pagare le perdite da tutti gli altri contribuenti, è iniqua e illegale. A rullare i tamburi di guerra più delle altre è la tribù dei “truffati” veneti, in particolare gli ex azionisti, obbligazionisti, sottoscrittori, depositanti della Banca Popolare di Vicenza, la madre di tutte le popolari fallite, l’alfa e l’omega di un sistema che ancor oggi si insiste a difendere.

La banca del territorio, la banca del popolo, la banca di sistema: tutti caciocavalli appesi come le idee hegeliane secondo Benedetto Croce. Perché la realtà è che non ci sono da una parte lupi e dall’altra candide pecorelle: le ire funeste di chi oggi ha perso il proprio capitale andrebbero bilanciate con le gioie di chi brindava in mezzo alla tempesta. A Vicenza è crollato il paradigma che ha fatto grande, robusto, ricco quel territorio finché è durato il carnevale.

Lo ha ammesso Giancarlo Ferretto, proprietario della Armes (sistemi di imballaggio), già presidente della Confindustria veneta e vicepresidente della BPV: “Se il Nord Est ha retto lo si deve anche alle banche popolari le quali, mentre le altre chiudevano i rubinetti, hanno continuato a erogare credito. Ma distribuivano utili che di fatto non avevano, incrementavano le azioni senza che ci fosse un corrispondente effettivo”. L’autodafé si spinge più in là: “Noi risparmiatori abbiamo sbagliato, le abbiamo considerate la mucca da mungere. Ogni anno distribuivano i dividendi, ci mettevano lì la monetina e aumentava il valore delle azioni. Io per primo ho fatto questo errore. Dovevamo capirlo: mentre i titoli delle banche quotate in borsa scendevano, quelli della BPV o di Veneto banca continuavano a crescere. Eravamo come drogati. Teniamo in piedi il territorio, ci ripetevano, siamo un sistema protetto”.

Al centro di questo sistema si era collocato Gianni Zonin, personaggio chiave nella Vicenza dell’ultimo quarto di secolo. “Troppo facile adesso dargli la croce addosso”, dice Ferretto che pure ha sfidato il “vignaiolo prestato alla finanza”. E affonda: “C’è stata un’omertà, un silenzio, un’acquiescenza. Ci sono molte responsabilità e quelle più grandi le ha la Banca d’Italia”. È così? La vigilanza di via Nazionale è sotto il tiro incrociato. Per i difensori dei piccoli soci-debitori, non si è mossa con la dovuta fermezza. Per Luca Zaia, il presidente leghista della regione Veneto, al contrario, la banca centrale ha peccato di “eccesso di zelo”, perché insieme al governo “ha preso le banche e le ha gettate sul mercato”. A via Nazionale si difendono inanellando i fatti.

Il 15 febbraio 2018 il giudice della udienza preliminare, Roberto Venditti, ha stabilito il sequestro conservativo di beni per 176 milioni di euro donati da Zonin ai familiari dopo l’inizio dell’inchiesta. Il danno per i risparmiatori della banca (a causa del calo di valore delle azioni, da 62,50 euro precipitate a 10 centesimi) ha fatto perdere 6 miliardi di euro a 118.000 piccoli azionisti. Nel marzo 2018 il Tribunale di Vicenza ha ordinato un ulteriore sequestro di beni di Zonin per 19 milioni di euro. “Paron Zani” si è rifugiato nella sua villa a Terzo d’Aquileia pretendendo di apparire come un perseguitato dalla sfortuna e dalle serpi covate in seno. Tutto è passato ai figli Domenico (presidente al posto del padre), Francesco (vice) e Michele che fa l’avvocato, più la moglie Silvana Zuffellato; il pacchetto azionario è suddiviso tra i membri della famiglia direttamente o attraverso alcune società veicolo. E l’eroe di un tempo diventa il grande traditore come nella novella di Jorge Luis Borges.

Il processo, il più grande mai celebrato fino ad oggi in Italia per reati bancari, si è aperto a dicembre. Sono imputati i vertici della banca, a partire da Zonin fino agli ex vicedirettori Emanuele Giustini e Paolo Marin, l’ex dg Andrea Piazzetta e l’imprenditore Giuseppe Zigliotto, già presidente della Confindustria locale e consigliere di amministrazione. Le accuse sono di aggiotaggio, ostacolo alla vigilanza di Bankitalia e Consob e falso in prospetto. Secondo i pm, Zonin non può essere considerato “un inconsapevole pensionato perché era perfettamente a conoscenza di quello che avveniva in banca. Si comportava come un amministratore delegato e tanti suoi amici hanno compiuto operazioni baciate”. La difesa, invece, sostiene che i veri responsabili del crac “sono fuori dal processo”, e intendono gli ex manager che avrebbero agito per proprio conto con operazioni spericolate che hanno eroso il capitale fino a portarla al collasso. Il “tribunale del popolo” capeggiato dalle organizzazioni dei soci ha già emesso le sue condanne, vuole che a pagare sia lo stato, cioè tutti gli altri contribuenti. Intanto, su tutto l’impero Zonin, compresa il pezzo forte, il vino, s’allunga l’ombra dell’incertezza. Nel dicembre scorso Alessandro Benetton con la finanziaria 21Invest è entrato in Zonin1821 la holding dell’azienda vinicolaprendendo il 36% e portando 65 milioni di euro (su un fatturato attorno ai 200 milioni) che saranno tutti investiti per sviluppare le attività produttive. E tra cinque anni, se tutto va bene, la borsa. Si chiude così un’altra storia centenaria di capitalismo familiare.

Giovanni detto Gianni, classe 1938, con diploma d’enologo a Conegliano e una laurea in giurisprudenza, nel 1967 a soli 29 anni aveva preso il posto dello zio Domenico alla guida dell’azienda di famiglia, trasformata in società per azioni. Allora la Zonin imbottigliava il vino comprato dai produttori e per compiere un salto di qualità era necessario uscire dalla provincia. Il primo balzo avviene nel 1970 con l’acquisto della tenuta di Ca’ Bolani in Friuli; seguiranno San Gimignano, la Maremma, il Piemonte, l’Oltrepo pavese. Poi il grande passo verso i sontuosi grappoli dell’area mediterranea con la Masseria Altemura nel Salento e il Feudo Principi di Butera in Sicilia tra il 1997 e il 2000, “acquistate con mezzi propri”, precisa l’azienda vinicola. L’Italia non basta e arriva anche il sogno americano. Nel 1976, Zonin pianta le viti in Virginia, a Barboursville Vineyards, una impresa già fallita ai tempi di Thomas Jefferson e mai più tentata dai primi dell’800.

La popolare vicentina gli spalanca le porte quando è già nel club dei grandi produttori di vino e si è affermato come imprenditore coraggioso. Diventare soci significava entrare nel giro esclusivo di chi conta davvero, quindi era sempre stato molto difficile. Nata nel 1866 per servire il popolo, la BPV in realtà serviva la classe dirigente locale. Finché il capitale non si è aperto anche ai dipendenti creando così un “parco buoi” manovrabile, visto che le carriere interne sono strettamente legate alla sorte dei vertici.

Zonin prende il timone nel 1996, quando l’istituto di credito contava 150 sportelli e poco più di 20 mila azionisti. Con lui le filiali diventano 650 e gli azionisti oltre 110 mila. La sua prima mossa è rifiutare le nozze già apparecchiate con la banca di Padova. Due anni dopo, insieme all’Ina e allo spagnolo Banco de Bilbao, compra una quota della BNL appena privatizzata. Frutterà lauti guadagni, ma anche un processo per complicità nella scalata lanciata nel 2005 dall’Unipol di Giovanni Consorte alla banca romana. Zonin verrà assolto, e finora nessuna delle numerose indagini giudiziarie contro di lui si è mai conclusa con una condanna. Nel 2002 la Cassa di Prato, in grave difficoltà, viene salvata dalla BPV. Nel frattempo, c’è lo sbarco in Sicilia dove Zonin acquistava poderi importanti. Nel 1998 la Popolare di Vicenza cerca di acquisire il polo creditizio nato dalla fusione tra il Banco di Sicilia e la Sicilcassa. L’operazione, in cordata con altri soci, non riesce perché prevale la Banca di Roma.

In politica Zonin ha seguito l’onda, come i suoi pari: è stato vicino ai democristiani, anzi ai dorotei per l’esattezza, poi berlusconiano, ma senza trascurare la Lega (al potere in Veneto). Tuttavia ha saputo essere trasversale. Vicenza è finita in mano al centro sinistra, anche se guidato da un democristiano d’antan come Achille Variati fattosi poi renziano ed entrato nel consiglio di amministrazione della Cassa depositi e prestiti. Il salotto buono e colto è la Fondazione Roi creata nel 1988 dal marchese Giuseppe Roi, pronipote di Antonio Fogazzaro, e dotata di un vasto patrimonio soprattutto immobiliare. Socio influente della BPV, quando muore, nel 2009, il marchese lascia alla banca la gestione dei suoi beni. Così Zonin diventa presidente della fondazione.

I primi dubbi sulla irresistibile ascesa del vignaiolo spuntano nel 2001. Gli ispettori della Banca d’Italia trovano “poco oggettivo” il valore delle azioni (44 euro). Ci mette il becco anche la magistratura che avvia un’indagine per falso in bilancio, ma il procuratore capo Antonio Fojadelli archivia il tutto. Un tentativo di riaprire il caso finisce con il “non luogo a procedere”. Affonda nel nulla anche l’accusa lanciata dall’Adusbef di “metodi estorsivi per diventare azionisti” archiviata nel 2009 perché “non si ravvisano credibili ipotesi di reato”. Intanto, scoppia la grande crisi finanziaria.

Il 2007 è un anno che fa da cerniera. L’Antitrust guidato da Antonio Catricalà dice no all’ingresso nel patto di sindacato di Mediobanca per incompatibilità visto che la banca guidata da Zonin è azionista della Cattolica Assicurazioni e della Nordest Merchant (insieme ai Benetton). Sarebbe stato il coronamento del grande sogno, invece rappresenta il punto di svolta negativo. Allora si consuma anche la rottura con un socio di rilievo come Nicola Amenduni, il gran capo delle acciaierie Valbruna, per un conflitto sulle strategie e sul direttore generale. Gli uomini della vigilanza contestano inoltre alcune operazioni in derivati perché nel frattempo si era acceso il semaforo rosso sui contratti ad alto rischio nascosti nei bilanci. Nel 2012 nuove indagini, mentre nell’anno successivo vengono effettuati diversi interventi (con lettere e nel corso di incontri) per richiamare la banca al rispetto dei limiti previsti all’epoca per il riacquisto delle azioni proprie e “per porre all’attenzione l’esigenza di non ingenerare nei soci aspettative di sicura e pronta liquidabilità del titolo azionario o di garanzia di un rendimento minimo dell’azione”, come scrive la Banca d’Italia nella nota tecnica trasmessa alla commissione d’inchiesta del consiglio regionale del Veneto. La lettera è un meticoloso elenco delle cose fatte, fino alla “spinta” per le dimissioni di Zonin e la trasformazione in società per azioni il 3 marzo scorso.

Eppure la popolare vicentina era riuscita a superare gli stress test anche se di stretta misura. ”La Banca Centrale Europea ci ha promosso in Europa fra i primi 13 più importanti gruppi bancari italiani – scriveva orgoglioso Zonin – siamo risultati una banca solida e fortemente patrimonializzata”. Era il 4 dicembre 2014. Solo due mesi dopo la Bce avrebbe avviato un primo accertamento per monitorare il sistema di governo, di gestione e controllo dei rischi, proseguito con una nuova verifica nel mese di marzo. All’assemblea dell’11 aprile 2015, quello stesso presidente che a Natale si felicitava con gli azionisti, propose di ridurre il valore del titolo da 62,50 a 48 euro. Un anno dopo sarebbe arrivato a 6 euro, perdendo in sostanza il 90%.

Lo stratagemma per schivare la vigilanza sta nel riscatto con chiusura anticipata di un prestito obbligazionario con scadenza 2018, emesso un anno prima. Dallo stress test, precisa la banca stessa, “emerge una carenza tecnica patrimoniale pari a 223 milioni di euro, più che compensata dalla già deliberata irrevocabile conversione del prestito obbligazionario soft mandatory per 253 milioni di euro”. Con quei 30 milioni di surplus residui il gioco è fatto.

Perché allora, nonostante ciò, si è continuato a parlare della BPV come possibile “aggregatrice” per salvare la Popolare dell’Etruria? Una tesi evocata da più parti è il buon rapporto con la Banca d’Italia grazie alla rete protettiva formata da ex funzionari di palazzo Koch: Gianandrea Falchi, già capo della segreteria quando Mario Draghi era governatore, assunto nel 2013 alle relazioni istituzionali; Mariano Sommella, arrivato fin dal 2008 e Luigi Amore l’uomo che aveva condotto l’ispezione del 2001. Nel 2011 era stato nominato vicepresidente Andrea Monorchio l’ex potentissimo direttore generale del Tesoro. Ad essi s’aggiungono magistrati in pensione (tra i quali quel Fojadelli che aveva archiviato l’inchiesta del 2001) e ufficiali della finanza. Uno schieramento singolare, una batteria di fuoco imponente rimasta alla fine senza cartucce perché in realtà è proprio la banca centrale a scoperchiare il pentolone magico.

L’ispezione del 2014 rivela che la popolare di Vicenza aveva comprato azioni proprie senza chiedere l’autorizzazione e “mette in luce un diverso problema, vale a dire quello delle azioni finanziate”. La BPV non aveva dedotto “per un ammontare cospicuo” dal patrimonio di vigilanza il capitale raccolto a fronte di finanziamenti erogati dalla stessa banca ai sottoscrittori delle sue azioni. Ciò ha provocato un buco di circa un miliardo di euro al quale si aggiunge il deterioramento del portafoglio creditizio, che ha comportato la contabilizzazione di 1,3 miliardi di euro di rettifiche di valore nel bilancio 2015 (+54% rispetto all’anno precedente). Le operazioni baciate, come vengono chiamate in gergo, sono concesse “a patto che i relativi finanziamenti siano autorizzati dall’Assemblea straordinaria” e “che le azioni non siano conteggiate nel patrimonio di vigilanza”. Sia la Popolare di Vicenza sia Veneto Banca, invece, le hanno praticate per mostrare una solidità che in realtà era solo frutto di una partita di giro, visto che i crediti concessi alla clientela rientravano in parte sotto forma di azioni.

Gli investitori ottenevano in cambio tassi agevolati, una cedola annuale oppure la “ricompensa” di un euro per ogni azione quando la banca, attraverso il fondo che avrebbe dovuto regolare e movimentare il mercato interno dei soci, ricomprava le sue stesse azioni dal cliente. Dal gennaio del 2014 era richiesta l’autorizzazione della Bce per ogni riacquisto, ma Popolare di Vicenza ricomprava azioni con disinvoltura, fino a quando il fondo non è stato bloccato e l’azione è divenuta illiquida, impossibile da vendere. Molti, a cominciare dalla Lega, gettano la colpa sulla riforma delle popolari, rimpiangendo il bel tempo in cui il valore di una azione veniva deciso a tavolino dai soci, magari senza perizie indipendenti, come era successo a Vicenza.

Allora c’era champagne per tutti come nella cantina di Auerbach quando il dottor Faust ne cavalcava le botti. Ma a partire dal 2015 tutto questo non è più possibile, quel piccolo mondo antico fatto di amicizie, collusioni, clientele, svanisce.

Molti soci di prima classe mangiano la foglia e scappano. La fuga dalla nave che affonda comincia proprio nel 2014 e mese dopo mese s’arricchisce di nomi: Giuseppe Stefanel, Renzo Rosso, la banca IBL, le Autostrade del Brennero, Giuseppe Zigliotto, allora presidente della Confindustria vicentina (la terza in Italia per associati), Giovanni Roncato, Luca Marzotto, il cognato di Zonin e consigliere della banca, Roberto Pavan. S’aggiungono ai vecchi “soci eccellenti” come la Cattolica assicurazioni, le Generali, Ferrarini il re dei salumi locali, Zigliotto della Confindustria vicentina (uscito prima del crac), la Fondazione Roi (ha investito nella banca 29 milioni che oggi valgono un decimo), la Fondazione cassa di Prato e persino Stefano Dolcetta della Fiamm (accumulatori) il quale aveva preso la presidenza. Non c’è dubbio, era davvero una banca di sistema e il sistema bancario cerca di salvarla, sensibile ai gridi di dolore che vengono anche dal sistema politico, soprattutto dalla Lega che governa il Veneto, ma non solo.

Prima fallisce un tentativo di andare in borsa, nonostante la garanzia di Unicredit; è un flop che contribuisce alla uscita di Federico Ghizzoni, l’amministratore delegato della grande banca milanese. Poi ci prova il fondo Atlante nato soprattutto ad opera di Giuseppe Guzzetti con la Cariplo, proprio per impedire che la crisi della popolare vicentina inneschi un effetto domino cadendo, innanzitutto, su Unicredit. Atlante, guidato da Alessandro Penati, investe un miliardo e mezzo di euro, ma non ce la fa; a quel punto si leva un coro di voci per chiedere un salvataggio di stato e la più acuta è ancora una volta quella della Lega. Dichiara Luca Zaia nel giugno 2017: “Il bail-in costerebbe 11 miliardi al fondo interbancario di garanzia, per salvarle basterebbe invece solo un miliardo. Mi sembra logico che convenga investire questo miliardo fregandosene dell’Europa per garantire i risparmiatori e salvaguardare i loro risparmi”. La Popolare di Vicenza insieme con Veneto Banca, finirà a Intesa Sanpaolo al costo simbolico di un euro.

Il Tesoro guidato da Pier Carlo Padoan sborsa 4,8 miliardi di euro liquidi e 12 miliardi sotto forma di garanzie. Un anno dopo Eurostat certifica che il costo sui conti pubblici per le due venete è stato di 4,7 miliardi di euro che pesano per 11,2 miliardi sul debito. Zaia non ha fatto bene i conti, o forse li ha fatti per i suoi elettori, ma non per il resto degli italiani. Per loro ci saranno la flat tax e le pensioni anticipate.

Chi paga? Pantalone che a quanto pare ha messo le braghe giallo-verdi. Finché reggeranno le bretelle.

di Stefano Cingolani da Linkiesta