Vergognarsi sì, vergognarsi no, Agorà. La Filosofia in piazza: ma oggi il pudore è un valore?

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La vergogna e il pudore
La vergogna e il pudore

Nel numero di febbraio di «Mind» c’è un interessante articolo sulla vergogna, in cui l’autrice dice cos’è appunto la vergogna, perché la si prova, perché la provano di più i giovani e i vecchi e meno i bambini e gli adulti, perché in media la provano più le donne degli uomini, cosa può voler dire gestire la vergogna, in cosa si distingue dal senso di colpa, con cui però va spesso a braccetto[1].

Tra i diversi spunti di riflessione che se ne possono ricavare segnalo il seguente: da un lato, ci vergogniamo quando non seguiamo le norme sociali che riteniamo legittime ma, dall’altro, gestire la vergogna può voler dire imparare ad accettarsi per come si è. Quindi, aggiungo io, si tratta di trovare l’equilibrio, la giusta misura, tra le richieste della società, relativamente a come “dovremmo” essere, apparire e comportarci, e l’identità e la libertà individuali.

Voglio ora evidenziare un odierno paradosso, mettendo in relazione il tema della vergogna con quello del pudore. Da un lato, c’è chi, piuttosto inconsapevolmente, segue alcune “mode” e alcune tendenze della attuale società e si comporta, dal punto di vista di certe norme “tradizionali”, in modo “svergognato”, mettendosi facilmente “in mostra”, non temendo di “mettersi a nudo”, di mostrare la propria intimità, fisica o psicologica, e “sbandierando” tutto quello che pensa, sente, fa e dice, addirittura in certi casi compiacendosi delle proprie bassezze.

Dall’altro, c’è chi non ha paura di essere sé stesso, non riconoscendosi in certe norme sociali, che non ritiene legittime, ed essendo quindi “svergognato” in modo consapevole, in senso lato politico, cioè per mettere in discussione quelle norme.

Il paradosso odierno è che chi è “svergognato” inconsapevolmente, cioè chi non si vergogna nel primo senso, non è colui che sta infrangendo le norme sociali, ma è proprio colui che sta subendo certe pressioni della società e ne segue le norme: è conformisticamente svergognato.

Forse, per queste persone inconsapevoli potrebbe essere importante recuperare e coltivare una virtù “fuori moda” ma preziosa: il pudore. Quel pudore, non moralistico e non conformista, che, come ha ben spiegato Umberto Galimberti, «difende la nostra intimità, difende anche la nostra libertà»[2]: protegge la nostra intimità dagli sguardi indiscreti, omologanti, protegge la nostra identità, la nostra unicità, e con esse la nostra libertà.

Di nuovo paradossalmente, oggi è chi coltiva il senso del pudore che “esce dagli schemi” e quindi “dovrebbe vergognarsi”: dovrebbe vergognarsi di vergognarsi, anziché vergognarsi di non vergognarsi, questo è il paradosso.

Qualcuno a questo punto potrebbe chiedere: ma qual è il problema? Se c’è qualcuno che vuole “mettersi in mostra” qual è il problema?

Il problema, a mio parere, è il rischio di subire inconsapevolmente le pressioni sociali e di interiorizzare, appunto inconsapevolmente, certe norme; il problema è il rischio di perdere la propria libertà.

Coltivare il senso del pudore, il valore del pudore, significa infatti scegliere, scegliere cosa “rendere pubblico”, e con chi, e cosa no. Inoltre, coltivare il pudore significa realizzare, di nuovo, la giusta misura. Insomma, il pudore è, o può essere, un valore, e realizzarlo vuol dire avere l’occasione di rendere più significativa la propria esistenza. Mi viene in mente questo passaggio dal celebre romanzo di Milan Kundera:

A casa non esisteva pudore. La madre girava per l’appartamento con indosso soltanto la biancheria intima, talvolta senza il reggiseno, talvolta, d’estate, nuda. Il patrigno non girava nudo ma entrava nel bagno tutte le volte che Tereza era nella vasca. Una volta che lei si era chiusa dentro a chiave, la madre aveva fatto una scenata: «Ma che ti prende? Chi ti credi di essere? Hai forse paura che lui ti mangi la tua bellezza?» […] La madre disse poi: «Tereza non vuole rassegnarsi al fatto che il corpo umano piscia e scorreggia». Tereza si era fatta rossa ma la madre continuò: «C’è forse qualcosa di male?» e rispondendo lei stessa alla propria domanda emise delle sonore scorregge[3].

Per concludere, riporto alcune righe dell’articolo da cui sono partito sul vergognarsi, non tanto o non solo per sé stessi, ma per gli altri: un passaggio che di questi tempi (ma da quanto durano?) mi sembra molto significativo: «In alcune situazioni non ci vergogniamo solo per noi stessi, ma anche per gli altri. In questo tipo di vergogna i ricercatori distinguono due forme: quando ci vergogniamo insieme agli altri vorremmo sparire insieme a qualcuno, ugualmente coinvolto.

Quando ci vergogniamo al posto di qualcuno, invece, lo facciamo per una persona che rimane del tutto indifferente al proprio comportamento. Alcuni studi hanno dimostrato tuttavia che l’errore altrui ci fa vergognare solo quando ci sentiamo legati alla persona in questione. Ciò vale, per esempio, per amici o parenti, ma anche per i membri di uno stesso gruppo. Dunque, da italiani, ci si può vergognare in alcune occasioni per il comportamento di altri italiani»[4].

[1] A. Kämmerer, Il marchio della vergogna, «Mind», n. 194, 2021, pp. 68-73.

[2] U. Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 86.

[3] M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano, 1985, pp. 52-53.

[4] A. Kämmerer, Il marchio della vergogna, cit., p. 71.


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a cura di Michele Lucivero

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