Veneto Banca e BPVi: ex dipendente di Montebelluna ora archiviato “non ci sta” e ci (de)scrive le diverse “letture” degli inquirenti romani e vicentini

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Procure e Veneto Banca, un whistle blower
Procure e Veneto Banca, un whistle blower

«"Veneto Banca, dopo tre anni di “arresti professionali” archiviate accuse a un dipendente. Che non ci sta all’oblio e sceglie di scrivere a VicenzaPiù»: ecco il seguito della prima parte della lettera che ci ha inviato un ex dipendente di Veneto Banca, che si è firmato ma ha chiesto l'anonimato perché temeva e ancora teme possibili "rappresaglie del sistema giudiziario e non solo" anche se quello che ci scrive non fa che confermare quanto da noi nel tempo documentato e rappresentato per la vicenda in generale delle due ex Popolari venete.

Ma il tutto assume un ulteriore rilievo raccontato come è da un ex dipendente per tre anni "appeso al giogo di una inchiesta giudiziaria, quella della procura di Roma su Veneto Banca, che - scrive il lettore - mi ha visto indagato per concorso nel reato di cui all’art... (non lo precisiamo per lasciare il più riservata possibile la fonte, ndr) per un presunto ostacolo alle funzioni di una autorità di vigilanza di Bankitalia che tuttavia non si era mai sentita in alcun modo ostacolata da me o per i fatti a me contestati e non solo quelli".

Dopo aver raccontato nella prima parte della lettera le sue personali peripezie il lettore si accinge ora a segnalare un suo spunto di riflessione che tocca anche la questione generale delle due ex Popolari venete e che "muove proprio dalle origini della pista investigativa perseguita dagli inquirenti romani, così come è stata dagli stessi descritta alla Commissione parlamentare di inchiesta ancora a fine 2017 e che ho incluso nel mio racconto provando con un pò di ironia a tenere distanti gli sfoghi per la tanta rabbia accumulata”.

"Le ragioni di questa mia - aveva già precisato l'ex dipendente di Veneto Banca - sono quelle di un sincero apprezzamento del suo lavoro di “cronista giudiziario”, con il quale sta rendendo un autentico servizio pubblico per la comprensione della verità, non solo processuale, del fallimento della Banca Popolare di Vicenza, la cui storia andrebbe letta insieme, ma anche in confronto diretto con quella di Veneto Banca".

A giugno del 2018, continua, quindi, la lettera, dopo ben quattro anni dall’inizio delle indagini, il processo si era spiaggiato a Treviso, “là dove Sile e Cagnan s’accompagna”. La vena d’oro investigativa immaginata dagli inquirenti romani era stata solo un abbaglio e si era presto esaurita, perché scavando dentro il compendio probatorio raccolto dagli investigatori non era emerso alcun elemento di prova in grado di sostenere le ragioni di un mio coinvolgimento nel presunto disegno criminale di insistito collocamento delle azioni con l’assistenza finanziaria della banca.

E anche dopo il deposito del fascicolo del PM, avvenuto ai primi del 2017, null’altro di interessante era stato aggiunto, fatta eccezione per qualche verbale di interrogatorio e alcune memorie difensive, che nulla contenevano in ordine al mio possibile concorso nei reati che mi erano stati contestati.

Ma nonostante il sacco fosse vuoto, tanto era bastato agli inquirenti romani per mandarmi ad un processo che era poi loro sfuggito di mano per manifesta incompetenza territoriale e non solo quella.

E per comprendere quanto poco solide fossero le fondamenta del loro castello accusatorio sarebbe bastato porre attenzione alle parole scelte dagli inquirenti romani per descrivere il quadro accusatorio alla Commissione parlamentare d’inchiesta e confrontarle con quelle spese il giorno prima dai loro colleghi berici.

Per la Banca Popolare di Vicenza la tesi accusatoria era stata motivata in ragione del fatto che “la conduzione degli affari della banca … si era concentrata in capo a poche persone le quali, in definitiva, non vorrei dire nell’inerzia, ma nell’affidamento degli altri, conducevano effettivamente, le questioni bancarie”. Era stato altresì precisato che la “vicenda costituisce una riedizione di comportamenti che si erano già verificati, risalendo indietro nel tempo” e chiarito che “il fascicolo processuale consta di circa 1.200.000 pagine”. Si era poi dato atto per gli esponenti esclusi dall’indagine che “la passività non è un comportamento. Quindi non è nemmeno un comportamento illecito che costituisca reato”.

Per Veneto Banca invece la procura romana aveva giustificato le accuse ricordando che “il cuore del materiale probatorio da cui hanno preso spunto le indagini, poi approfondite dalla Guardia di Finanza e direttamente dalla procura di Roma, è fornito dalle relazioni della Banca d’Italia”, precisando che “non ci siamo soffermati direttamente sulle attività di gestione anche per quanto riguarda la concessione di finanziamenti per ragioni di competenza” e aggiungendo poi che “Le carte in nostro possesso corrispondono a ben 18 faldoni”, da qualcuno stimate in circa 26.000 pagine.

Coerentemente alla linea investigativa dichiarata, la Procura di Vicenza al termine delle indagini aveva indicato quali possibili responsabili dei reati di ostacolo alla vigilanza, falso in prospetto e aggiotaggio sette persone tra amministratori e alti dirigenti, riuscendo a raccogliere prove sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio, che dopo quattro anni dall’avvio delle indagini ovvero nel 2019 era giunto alla fase dibattimentale.

Diversamente, seguendo la loro frastagliata impostazione accusatoria, gli inquirenti romani dopo oltre due anni dall’avvio delle indagini, avvenuto nel 2014 (prima di quelle per Vicenza, ndr), avevano notificato un avviso di garanzia per i reati di ostacolo alla vigilanza e aggiotaggio a ben 15 persone e poi chiesto il rinvio a giudizio per undici di esse, tra amministratori, sindaci, soci e dirigenti, schiantandosi dopo oltre quattro anni contro il muro dell’incompetenza territoriale che aveva riportato tutto a Treviso.

Qui, dopo oltre sei anni dall’inizio delle indagini, ancora non è iniziata la fase avanti il giudice dell’udienza preliminare (la lettera è di marzo e la stiamo pubblicando ora, avendo terminato di raccoglierne i dettagli proprio a cavallo del dissequestro dei beni di Consoli, un primo barlume di luce sulla vicenda dell’Istituto montebellunese incrociata con quella di BPVi, ndr).

In breve, mentre gli inquirenti vicentini si erano posti da subito l’obiettivo di indagare sull’effettiva governance della banca, approfondendo le principali operazioni facenti riferimento a tale area di governo, quelli romani si erano invece soffermati su alcuni singoli episodi, taluni di poca se non nulla rilevanza e per questo neppure rilevati come ostacolo dalla stessa Banca d’Italia, alla quale erano peraltro già noti, senza però null’altro approfondire in ordine ai ruoli e responsabilità di un"vertice" non meglio identificato, al quale doveva far capo il governo della banca e quindi la politica creditizia.

Stupiva pertanto l’ammissione degli inquirenti romani: “non ci siamo soffermati direttamente sulle attività di gestione anche per quanto riguarda la concessione di finanziamenti per ragioni di competenza”, senza tuttavia precisare a chi altri spettasse farlo.

Eppure quegli stessi inquirenti avevano scritto con tanta fermezza che i "Vertici, ovvero gli odierni indagati, avevano all’evidenza consentito una politica creditizia e di espansione in tal senso, ad elevatissimo rischio e di immediato depauperamento del patrimonio della banca e avevano altresì dichiarato di aver accertato l’esistenza di una politica aziendale distonica rispetto agli ordinari canoni di corretta gestione del merito creditizio".

Ma come avevano fatto ad accertare tutto ciò se neppure si erano direttamente occupati delle "attività di gestione anche per quanto riguarda la concessione di finanziamenti"?

E, poiché diverse erano state le strategie investigative, non poteva certo sorprendere che diversi fossero stati i soggetti indagati, gli ambiti di operatività considerati e i risultati alla fine conseguiti dagli inquirenti berici rispetto a quelli romani.

I risultati di questi ultimi si erano disvelati in tutta la loro imbarazzante evidenza dopo il trasferimento del processo da Roma a Treviso, dove la locale procura, preso atto delle elementari conclusioni del lavoro del consulente tecnico incaricato di verificare la rilevanza di gran parte dei fatti contestati, aveva subito fatto cadere ben cinque capi di accusa su otto e ridotto ad uno e uno solo (Vincenzo Consoli, ndr) tutti i presunti colpevoli, facendo evaporare d’un sol colpo la pluralità dei presunti Vertici.

In procura a Treviso doveva anche essere parso assai singolare che gli inquirenti romani avessero trascurato di occuparsi direttamente di quanto, al contrario, era stato ben evidenziato dai loro colleghi di Vicenza ovvero che l’indagine doveva muovere da chi aveva “il pieno e diretto coinvolgimento delle varie strutture della banca competenti in merito a tutta la gestione del capitale, vale a dire la DIVISIONE MERCATI, dalla quale dipendeva la rete territoriale e l’attività prettamente commerciale, e la DIVISIONE CREDITI, nelle cui competenze rientrava la funzione di erogazione del credito (seppure in parte in condivisione con la struttura “dei MERCATI”) dato che il personale della prima era attivo nella conclusione degli accordi con la clientela per le c.d. “operazioni baciate” o, comunque, per le operazioni di finanziamento in parte correlato, mentre dirigenti e funzionari “dei CREDITI” assicuravano una corsia preferenziale ed un occhio di riguardo alle pratiche relative ai finanziamenti correlati, anche soltanto in parte, all’acquisto e/o alla sottoscrizione di azioni BPVI”.

Forse a Treviso si erano anche domandati se a Vicenza erano stati solo fortunati o piuttosto non erano partiti dalla lettura dello Statuto e del Regolamento aziendale per andare a colpo sicuro.

Nello Statuto infatti era scritto anzitutto che l’oggetto sociale della banca era “la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito, in tutte le sue forme” e nel Regolamento aziendale, mai citato dagli inquirenti romani, era invece scritto chi si doveva occupare delle diverse fasi di gestione e controllo del credito in tutte le sue varie forme, atteso che - come  puntualmente evidenziato da altro giudice - “la fase di erogazione del credito da parte della banca era occasione di gestione del capitale sociale”.

E dunque, come avevano potuto gli inquirenti romani accertare le gravi responsabilità del default della banca trascurando di indagare direttamente la principale area di attività della stessa ovvero quella degli affidamenti, che costituivano oltre il 90% dell’attivo?

Qui finisce la lettera ma non la storia descritta per sommi e dolorosi capi dal nostro lettore le cui narrazioni logiche ci fanno ripetere quanto già scritto in "Veneto Banca, BPVi, Carrus, Iorio, Bankitalia, Atlante: i dubbi di Schiavon sul dramma, commissione Ruocco li sciolga! Se non ora quando?").

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