Sul bisogno di citare, Agorà, la filosofia in piazza: supposte di filosofia per l’era del pensiero breve

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Supposte di filosofia
Supposte di filosofia

Viviamo nel tempo della brevità: nella comunicazione mediatica tutto deve essere condensato in pochi caratteri per essere efficace.

Anche nell’ambito della filosofia, piegata davanti alla diffusione mediatica, sta avvenendo questo: alla fatica del concetto si è sostituita la citazione breve. Nel web c’è un tripudio di pagine che riportano citazioni di filosofi e che illudono il lettore di accedere così, in semplicità e velocità, al pensiero di un autore.

Più che pillole di filosofia a me paiono delle supposte, in senso etimologico, cioè qualcosa che si mette sotto per cercare di alzarsi un po’ perché la conoscenza, la scienza – che in greco si dice episteme – è ciò che sta sopra.

Ma possono bastare questi strumenti? C’è forse un altro bisogno che si tenta di esprimere? Sei anni fa nel libro Pensieri superflui sullo spirito ai tempi di Facebook[1]  scrivevo una riflessione che qui riprendo e aggiorno, alla luce di nuove mode circolanti nel web.

Un’ossessione tipicamente facebookiana è quella delle citazioni. Molti condividono nel proprio stato aforismi o frasi dette da pensatori, cantanti, uomini di spettacolo o cultura (che poi sono la stessa cosa).

Niente di nuovo sotto il sole (anche questa, in fondo, è una citazione!): si è sempre fatto e si continuerà a fare. È pressoché impossibile farne a meno: il già detto o pensato è rassicurante; è il punto fermo su cui ancorare una convinzione o formarsi un’idea; è un atto che ha qualcosa di patetico e al tempo stesso sacrale; è il tentativo di fermare il flusso del tempo, ripetendolo infinitamente in un punto.

Le citazioni possono essere anche di altro genere: un pittore dipingendo un quadro può – con un dettaglio – richiamarne un altro in chiave celebrativa o polemica; un musicista può fare lo stesso, inserendo in una sua composizione delle note che evochino altre melodie.

Tuttavia, il fondo comune di tutte le citazioni è il bisogno di riconoscere. Il riconoscimento, non di sé stessi, ma dell’altro sta al fondo di questi atti ed è il bigliettino da visita dello spirito. Il corpo non ha bisogno di forme riconoscibili, lo spirito sì. Senza di esse lo spirito non sarebbe capace di orientarsi nella vita relazionale: al corpo bastano le informazioni ricevute dai sensi, allo spirito no.

Personalmente avrei un attacco di panico, se dovessi adottare un comportamento solo sulla scorta delle mie sensazioni. Eppure esse basterebbero! Le informazioni sensoriali mi dicono se la persona che ho di fronte è alta o bassa, se è profumata o puzza, se ha una voce stridula o suadente, di che colore ha occhi e capelli ecc., ma tutto questo non mi soddisfa. Voglio anche sapere che musica ascolta, che libri ha letto, cosa ne pensa della riforma della scuola di Renzi, quale Dio bestemmia. Se ascolto una canzone, poi, non riesco a fare a meno di individuare i punti di contatto con altre; se leggo un romanzo o un fumetto voglio scovare i modelli a cui si è ispirato l’autore, cercandone le tracce nella sua opera.

L’attività dello spirito è un continuo lavoro di riconoscimento delle forme comuni: perché? Forse perché lo spirito è impaurito e profondamente solo.

[1] T. Custodero, Pensieri superflui sullo spirito ai tempi di Facebook, PietreVive Editore, Locorotondo 2015.


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a cura di Michele Lucivero

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