Nuove regole europee sul credito, Il Fatto: la stretta europea che può schiantare i debitori

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Banche
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Se già la pandemia non fosse bastata a mandare al tappeto decine di migliaia di imprese e attività, dal primo gennaio il knock out per la parte più fragile del sistema economico e sociale del Paese potrebbe arrivare dalle nuove regole europee sul credito. Con un uno-due micidiale, i debitori in difficoltà rischiano di soccombere per la coincidenza tra l’entrata in vigore dell’identificazione dei crediti deteriorati e la stretta del cosiddetto calendar provisioning sulla copertura obbligatoria per le banche dei finanziamenti a rischio. Sono 2,7 milioni i clienti del sistema bancario con il fiato sospeso, quelli che, con la crisi Covid, hanno presentato richieste di moratoria su prestiti, mutui e finanziamenti per un valore totale di 302 miliardi. Ma questa gragnuola di colpi rischia anche di innescare una nuova stretta creditizia potenzialmente letale per il sistema economico messo in ginocchio dal coronavirus.

Le difficoltà economiche del Paese sono datate, il coronavirus le ha esacerbate causando una recessione simile per entità a quella scatenata da una guerra. Nei primi due trimestri dell’anno il Pil italiano è calato su base trimestrale del 5,5% e del 12,8%, poi in estate è rimbalzato del 16,1%. Ora però con la seconda ondata e i rischi di una terza la congiuntura è tornata a frenare.

La platea dell’Italia esposta col credito che potrebbe andare in crisi è vasta. Le cifre le ha messe in fila il direttore generale dell’Associazione bancaria italiana, Giovanni Sabatini, nell’audizione del 14 dicembre alla Commissione parlamentare sul sistema bancario. Al 27 novembre erano 1,2 milioni le richieste di accesso presentate dalle imprese alle moratorie di legge o concesse volontariamente dagli istituti di credito, per un controvalore di 195 miliardi, oltre a 1,5 milioni di domande presentate dalle famiglie per 97 miliardi, delle quali oltre 220mila chiedevano al Fondo pubblico di solidarietà la sospensione delle rate del mutuo sulla prima casa, per un importo medio di 94mila euro ciascuna. A queste si aggiungono le richieste di garanzia dei finanziamenti al Fondo per le piccole e medie imprese del ministero dello Sviluppo economico: con le misure di emergenza per la pandemia, dal 17 marzo al 10 dicembre sono arrivate oltre 1,45 milioni di domande per 116 miliardi, di cui oltre un milione per prestiti fino a 30mila euro. Infine ci sono le garanzie Sace attive dal 20 aprile: al 9 dicembre erano stati erogati circa 18,2 miliardi su 1.092 richieste.

Su questo esercito che in parte già arranca, ha spiegato Sabatini, da gennaio si sta per abbattere il fuoco incrociato di due misure europee “introdotte da anni in un contesto completamente diverso da quello attuale” che rischiano “di avere gravi conseguenze sul tessuto economico dell’Italia, da un lato limitando fortemente la possibilità per le banche di offrire all’economia l’indispensabile sostegno per uscire dalla crisi e, dall’altro, compromettendo irrimediabilmente la situazione finanziaria di clienti che si trovino a versare in difficoltà, anche solo temporanea”. La prima riguarda l’identificazione dei crediti deteriorati e la definizione di default, la seconda il calendar provisioning per la copertura obbligatoria dei finanziamenti a rischio.

Con la revisione delle regole sul default, le banche dovranno dichiarare inadempienti le imprese in arretrato di pagamento per oltre 90 giorni su importi superiori a 500 euro, riferiti a uno o più finanziamenti e che rappresentino più dell’1% dei debiti totali. Per le persone e le piccole e medie imprese con crediti inferiori a un milione, l’importo del pagamento scaduto che fa scattare il default è di soli 100 euro, se superiori all’1% del debito totale. In base alle nuove regole, dal default di una posizione scatterà automaticamente quello di tutti i finanziamenti del cliente nella stessa banca. Inoltre, a differenza del passato, i margini attivi dell’impresa su altre linee di credito non potranno più essere usati per compensare gli arretrati ed evitare l’inadempienza. Ancor peggio, la banca non potrà aiutare i clienti con dilazioni o variazioni delle condizioni perché saranno considerate cause di default tutte le “ristrutturazioni onerose” che riducono dell’1% o più gli incassi rispetto al debito originario. Ma a finire in default saranno tutti i co-intestatari del debitore inadempiente e quelli legati da connessioni legali o economiche. I nuovi criteri si applicheranno a tutti i debitori, compreso lo Stato che rischia di essere classificato in default per i suoi cronici ritardi nei pagamenti.

Finire sulla lista dei cattivi pagatori gestita dalla Centrale dei rischi della Banca d’Italia non è un problema da poco, perché impedisce a chi vi viene iscritto di accedere ad altre linee di credito. L’Abi ha così chiesto a Parlamento e Governo misure temporanee come la concessione di più di 90 giorni prima della classificazione delle rate tra quelle scadute, l’innalzamento del valore delle soglie e l’introduzione di criteri meno stringenti per le ristrutturazioni dei crediti.

Ma non basta. Dopo anni di preparazione, da gennaio entreranno concretamente in vigore le regole varate a luglio 2018 dalla Banca centrale europea e nel 2019 dalla Commissione Europea sul calendar provisioning, che cambiano il calcolo delle coperture obbligatorie per le banche dei crediti deteriorati, accelerando la loro svalutazione automatica. La Bce chiede alle banche di svalutare completamente in tre anni i crediti deteriorati e in 7-9 anni se coperti da garanzie per ripulire i bilanci degli istituti dai rischi ed evitare crack come quelli seguiti alla grande crisi del 2008-2009.

“La nuova definizione di default e il calendar provisioning sono tra loro fortemente interrelati”, ha spiegato Sabatini ai parlamentari. “Un incremento dei crediti classificati a sofferenza, per effetto della nuova definizione di default, induce un maggior onere di coperture obbligatorie, i cui effetti restrittivi sull’economia tenderebbero a loro volta a indurre un effetto negativo sulla qualità degli attivi bancari”. Già a febbraio dell’anno scorso uno studio di Equita Sim calcolava che l’applicazione del calendar provisioning avrebbe portato a un taglio nell’erogazione del credito pari al 15% in meno in sette anni, con una riduzione cumulata dei prestiti nell’ordine di 185 miliardi. Queste regole, ardue da sopportare in una situazione economica normale, diventano ora un cappio al collo per banche e clienti piegati dalla pandemia. La situazione rischia di spingere molte imprese e famiglie fuori dai canali del credito ufficiale, consegnandoli nelle mani di intermediari senza scrupoli o addirittura dell’usura.

Il 9 settembre era stato il numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, a spiegare i rischi del calendar provisioning alla Commissione parlamentare: “Una norma sbagliata che applicata nel post Covid è come una bomba atomica”. Anche dalle associazioni di categoria si è alzato un coro di proteste. Commercianti, artigiani, piccole imprese chiedono il rinvio o la cancellazione delle norme. La Confederazione nazionale dell’artigianato sollecita il Governo a trovare soluzioni a livello europeo che non vanifichino la proroga della moratoria e il potenziamento del Fondo di garanzia per le Pmi previsti nel disegno di legge di bilancio. All’Abi, il capo della vigilanza bancaria europea, Andrea Enria, ha però ribadito che sarebbe sbagliato rinviare o alleggerire le nuove regole. Secondo la Cgia di Mestre “l’applicazione di queste misure indurrà moltissimi istituti di credito ad adottare un atteggiamento di estrema cautela nell’erogare i prestiti, per evitare di dover sostenere perdite in pochi anni. Insomma, per tantissime Pmi è in arrivo una nuova stretta creditizia”.

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