Magistratura e riforma della Giustizia: il punto di vista dell’ex magistrato Giovanni Schiavon sulle cariche politiche delle toghe

Giudici a domicilio
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L’Italia è impegnata in un’opera di radicale riforma del Sistema Giustizia, impostaci dall’Europa, con una serie di programmati interventi normativi in grado di riportarla ad un livello di efficienza e di competitività che possa consentire al nostro Paese di allinearsi a quelli più progrediti. E questa sarà anche l’occasione per introdurre quei cambiamenti in alcuni nodi fondamentali  della vita dello Stato, che potranno aiutare la stessa  magistratura a recuperare, nell’opinione pubblica, quella fiducia che, da qualche tempo, sembra appannata e fortemente compromessa.

In questa prospettiva, mi paiono utili alcune sintetiche riflessioni su punti significativi, nella speranza di poter suscitare un diffuso e costruttivo dibattito anche fra i lettori.

Un primo problema fondamentale da risolvere (un prossimo scritto riguarderà il sistema elettorale del CSM) dovrà essere quello del rapporto magistrati e politica.

La Corte costituzionale consente ai magistrati di partecipare, sebbene a determinate condizioni, alla vita politica del Paese, anche candidandosi alle elezioni o ottenendo incarichi di natura politica. È, tuttavia, loro vietata l’iscrizione a partiti politici, nonché la partecipazione sistematica e continuativa all’attività di partito. In altre parole, pur essendo  consentito ai magistrati, come ad ogni altro cittadino, l’esercizio dell’elettorato passivo, è vietato lo schieramento organico e non occasionale con una delle parti politiche in gioco; una tale situazione sarebbe disciplinarmente sanzionabile. Ma, quello che più interessa, è l’altro aspetto del delicato problema: cioè il ricollocamento in ruolo di un magistrato che abbia svolto un’esperienza politica. E ciò perché il ritorno nella giurisdizione di un magistrato che sia stato anche solo candidato o abbia svolto un mandato in funzioni pubbliche elettive o ricoperto incarichi di governo nazionale o locale, comporta la piena visibilità del suo orientamento politico, cosicchè ben potrebbe comprometterne quantomeno l’immagine di imparzialità e terzietà.

L’ANM, su questo tema, era orientata nel senso di auspicare che il magistrato rientrante in ruolo fosse definitivamente “collocato fuori dall’esercizio della giurisdizione, con funzioni amministrative non dirigenziali e con esclusione della possibilità di accedere alla magistratura di legittimità o di fare ritorno all’ufficio di provenienza”. Ma questa soluzione  è evidentemente ipocrita e neppure, in concreto, praticabile; comunque di sospetta incostituzionalità.

In linea generale, ritengo che un magistrato possa, come tutti gli altri cittadini e come gli consente la  Costituzione, assumere un ruolo politico. Ma, se lo fa o se solo si candida a farlo, non dovrebbe mai più avere la possibilità di rientrare in magistratura (e neppure di svolgere, fuori ruolo, le funzioni che la legge riserva ai magistrati, come quelli dell’Ispettorato del Ministero della Giustizia).

Il problema non è la lontananza del luogo nel quale il magistrato ex politico dovrebbe riprendere a svolgere le funzioni giurisdizionali; non è, cioè, candidarsi in un posto o nell’altro. Il problema vero è che il candidato ad un incarico politico cesserebbe definitivamente di avere la credibilità del magistrato e sarebbe sempre percepito come un soggetto di parte, incapace di svolgere il lavoro del giudicante (o del requirente) con l’irrinunciabile connotazione della terzietà voluta dalla Costituzione.

L’attuale sistema consente che un magistrato che ha svolto funzioni politiche, anche molto significative, fuori dal ruolo, possa farvi rientro; e con il solo obbligo di osservare alcune (modeste) cautele riferite alla distanza dell’ufficio giudiziario di rientro. Si pensi che, di recente, è stato addirittura consentito che un magistrato, collocato fuori ruolo per  svolgere, prima, il lavoro di assistente al CSM, poi, l’incarico di consigliere allo stesso CSM, infine, le funzioni di parlamentare e, perfino, di  “ministro ombra” della Giustizia (per conto di un partito politico), potesse, poi, rientrare nella magistratura attiva ed ottenere (per di più senza alcuna pregressa esperienza concreta, neppure  in incarichi semidirettivi: ma, questo, è un  problema diverso) la nomina di presidente di un Tribunale! Come potrebbe un cittadino, che dovesse da lui essere giudicato, ritenerlo “terzo e indipendente” (anche se nella realtà, egli lo fosse)?

La terzietà e l’indipendenza della magistratura non sono prerogative o privilegi di categoria, ma costituiscono garanzie i cui beneficiari sono i cittadini, i quali  devono poter contare su magistrati effettivamente terzi e indipendenti e che tali anche appaiano.


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