Lo scontro su Bankitalia negli articoli di Meletti e Di Foggia su Il Fatto: parole di fuoco tra Di Maio e Tria, con in mezzo Salvini…

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Rimesse estere rilevate da Banca d'Italia
Banca d'Italia

da Il Fatto Quotidiano

La tregua decisa con la sessione di bilancio è finita. Il bersaglio è la Banca d’Italia, ma trascina con sé l’asse che lega Palazzo Koch col Colle di Sergio Mattarellla e i suoi addentellati nel governo gialloverde tra i ministri, per così dire, “tecnici”. Arriva con una scenografia suggestiva, l’assemblea a Vicenza dove Matteo Salvini e Luigi Di Maio incontrano le associazioni dei “truffati” delle banche finite in dissesto (da Etruria & C. alle due venete), ma ha il suo prologo nel Consiglio dei ministri dove giovedì notte sono volate parole di fuoco tra il leader grillino e il ministro dell’Economia Giovanni Tria.

All’ordine del giorno c’era la riconferma del vicedirettore generale di Bankitalia, Luigi Federico Signorini, uno dei 5 membri che insieme al governatore Ignazio Visco compone il direttorio di via Nazionale. Ieri i due dioscuri del governo hanno suonato lo stesso spartito: “Per Bankitalia serve discontinuità” (Di Maio). I vertici dell’istituto di Palazzo Koch, ma anche della Consob, “andrebbero azzerati, altro che cambiare una-due persone, azzerati”, (Matteo Salvini). La mossa ha aperto uno scontro senza precedenti col Quirinale che ha coinvolto il premier Giuseppe Conte.

Riavvolgiamo il nastro. Spetta al direttorio indicare il nome al premier, che in accordo con Tria – e sentito il Consiglio dei ministri – deve poi sottoporlo al Quirinale per la nomina. Nei fatti è sempre stata una questione interna a Bankitalia d’intesa col Colle. In Cdm, però, Di Maio ha fermato tutto con una mossa senza precedenti. Con Tria si è arrivati alle urla e, complice l’assenza alla riunione di Salvini, i giornali si sono riempiti di retroscena su una spaccatura interna al governo, coi grillini contro Tria, difeso invece dalla Lega per bocca di Giancarlo Giorgetti (“così non duriamo un mese”).

La realtà, però, pare più complessa. Incurante dei richiami del Quirinale, Lega e 5 Stelle hanno deciso di aprire le ostilità con la vigilanza bancaria: “Non c’è stato nessuno scontro in Cdm tra Lega e M5S, ma un’assoluta identità di vedute: non si possono riconfermare i vertici di un’istituzione che ha fallito nel suo compito”, spiegano autorevoli fonti del Carroccio. In questo senso Signorini è il bersaglio perfetto: carriera tutta interna a Bankitalia, dal 2008 è al vertice della Vigilanza, di cui è stato direttore centrale dal 2012 al 2013. È l’unico del direttorio ad aver guidato gli ispettori e ha avuto un ruolo rilevante nei negoziati sull’Unione bancaria e le regole Ue che vietano aiuti di Stato alle banche se prima non pagano anche gli investitori (mentre Banca d’Italia chiudeva un occhio sui titoli piazzati a man bassa ai piccoli risparmiatori). È poi un fedelissimo di Visco, i cui rapporti con Lega e M5S sono pessimi fin dalla scorsa legislatura, quando Palazzo Koch fu (giustamente) messo sulla graticola per i suoi errori nei disastri bancari. Negli ultimi mesi è stato poi la voce di Bankitalia nelle audizioni, assai critiche, sulla manovra.

Finora, però, le ostilità erano state tenute a freno. Lo scontro con la Commissione Ue sulla manovra aveva imposto ai gialloverdi una tregua armata: ora è saltata. Ieri Salvini ha superato i timori, veri o presunti, di Giorgetti quasi intestandosi la battaglia a Bankitalia: “Indipendenza non vuol dire irresponsabilità. Non riconfermare qualcuno e scommettere su qualcuno di nuovo mi sembra il minimo nei confronti degli italiani e di chi è stato fregato. Signorini doveva vigilare e non l’ha fatto, dovrà trarne le conseguenze. Nulla di personale”.

L’asse tra gli alleati si spingerà fino a ostacolare a oltranza la riconferma di Signorini, che scade lunedì. Il governo è compatto, nonostante la forte irritazione di Mattarella. Che ieri l’ha illustrata a Conte al Quirinale a margine della cerimonia in ricordo delle Foibe. I toni, raccontano fonti di governo, sono stati assai duri, al punto che il capo dello Stato non ha escluso uscite pubbliche a difesa dell’indipendenza di Bankitalia. Conte ha però ribadito che le “forti perplessità” del governo porteranno a non riconfermare il burocrate: “Si deve cambiare”. Anche se, secondo l’Ansa, il vero obiettivo è la poltrona di direttore generale di Bankitalia, occupata fino a maggio dal pensionando Salvatore Rossi.

Lo scontro è solo all’inizio. Poi toccherà alla nuova commissione d’inchiesta sulle banche che partirà proprio dalla Vigilanza bancaria: “Li chiameremo per primi”, assicura Di Maio. Quando ci provò Renzi, fu il Quirinale a blindare Visco. E sempre ascoltando i timori di Palazzo Koch Mattarella ha stoppato la nomina al Tesoro di Paolo Savona, il ministro più critico nei confronti della Banca d’Italia.

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L’attacco alla Banca d’Italia del governo gialloverde – o più precisamente di Matteo Salvini e Luigi Di Maio – è senza precedenti. Il semaforo rosso acceso in Consiglio dei ministri sul rinnovo per altri sei anni di Luigi Federico Signorini, uno dei cinque membri del Direttorio guidato dal governatore Ignazio Visco, è il primo concreto limite mai posto all’indipendenza di Palazzo Koch – o al suo potere incontrollato, a seconda dei punti di vista. La vicenda, di prima grandezza, è dominata dalla schizofrenia di tutti i giocatori.

Di Maio e Salvini dichiarano di voler asfaltare Palazzo Koch, accusandolo di aver vigilato male sulla crisi bancaria; ma per la presidenza della Consob si fanno imporre il nome di Paolo Savona (un uomo foderato di conflitti d’interesse) dagli ambienti finanziari timorosi che Marcello Minenna portasse a una vigilanza più efficace. Il Quirinale stoppa Minenna, dirigente Consob, perché non gradisce la nomina interna, mentre per Bankitalia la nomina interna è reputata consustanziale al dogma dell’indipendenza. Giuseppe Conte rimbrotta da par suo – come un bidello impotente alle prese con una classe indisciplinata – i ministri M5S per il colpo all’indipendenza della Banca d’Italia. Ma è lo stesso premier che pochi giorni fa, nella veste di avvocato del popolo delle società quotate in Borsa, ha calpestato l’indipendenza della Consob imponendole come presidente un suo ministro, Savona.

È questione di regole. La Banca d’Italia propone il nome di Signorini al governo che lo porta al Quirinale per la nomina. Il presidente del Consiglio propone il presidente della Consob al governo che lo manda suo tramite al presidente della Repubblica per la firma. Il sistema dei semafori successivi sottrae le scelte all’arbitrio di un unico decisore. Logica vuole che ogni soggetto dotato di pulsante debba accendere il semaforo rosso quando veda un problema.

Invece ognuno piega le regole ai comodi suoi. Il presidente Sergio Mattarella aveva il diritto di dire no a Savona ministro dell’Economia: perché il governo non può dire no a Signorini? Perché prevale una logica massonica: se il nominando è “dei nostri”, lo stop è un’odiosa ingerenza; se non piace alla gente che piace il semaforo rosso dimostra che le istituzioni funzionano. L’idea sudamericana che chi conquista Palazzo Chigi sia legittimato a calpestare ogni regola è stata introdotta da Silvio Berlusconi, perfezionata da Matteo Renzi e portata all’apoteosi delle ultime settimane da Conte.

Venendo al merito del bubbone chiamato Bankitalia, dopo il primo cazzotto dato da Di Maio in Consiglio dei ministri, Salvini ha rincarato con l’attacco personale in tv: “Federico Signorini, chi da tanti anni doveva vigilare e non l’ha fatto dovrà trarre le conseguenze di questa mancata vigilanza”. Il tema è vecchio. Nei dieci anni della grande crisi la vigilanza di Palazzo Koch ha consentitodi tutto alle banche, con l’idea sbagliata che così si salvasse il sistema. Nessuno ha presentato il conto a Bankitalia che ha potuto invece presentare il conto dei suoi errori ai risparmiatori. La commissione banche del 2017 è stata un talk show scoppiettante, quella nuova che il M5S vorrebbe guidata da Gianluigi Paragone sarà un talk show noioso su cose già viste.

Dalla schizofrenia si passa qui all’ipocrisia. L’ex premier Paolo Gentiloni racconta nel suo libro La sfida impopulista che nell’estate 2017 lui e Mattarella stavano per mandare a casa Visco, in scadenza, con ottime ragioni come le “defaillance nell’azione di vigilanza della Banca d’Italia”. Poi Renzi fece la fesseria della mozione parlamentare contro Visco, costringendo Mattarella al rinnovo. Nessuno ha smentito Gentiloni. Tutti i conoscitori della materia, con l’eccezione dei cinque membri del Direttorio, sanno che la vigilanza sulle banche ha fatto schifo. Mps, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Marche, Etruria, Cassa Ferrara, Carichieti e Carige sono andate in malora per anni avendo stabilmente in casa plotoni di ispettori Bankitalia che non vedevano, fingevano di non vedere, o intervenivano provocando ulteriori danni. Tutti lo sanno e nessuno lo dice. Gentiloni ha lavorato per silurare Visco, ma lo ha detto dopo, per rivendicare la sua saggezza e la lungimiranza di due anni fa e per far fare a Renzi la figura del fesso. Nessuno commenta.

Adesso Di Maio e Salvini si accontentano, più modestamente, di mandare a casa Signorini, e subito i custodi delle istituzioni infiltrati dai poteri forti nel governo gialloverde spifferano ai giornali ogni parola detta in Consiglio dei ministri. Se ne deduce che la difesa di Consob e Bankitalia, e delle istituzioni, non appassiona nessuno. E neppure la loro indipendenza. L’unica cosa che piace a tutti – maggioranza e opposizione, ieri e oggi, nessuno escluso – è la certezza di poter contare, in Bankitalia come in Consob, su qualcuno a cui chiedere un favore.

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