Lingua veneta a scuola, Alessandro Mocellin dell’Academia risponde ai consiglieri di Vicenza: “siamo tutti già mezzi bilingue”

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Alessandro Mocellin

È comprensibile e per certi versi doveroso – ci scrive il dott. Alessandro Mocellin, docente nei progetti POF “Percorsi di Lingua Veneta” e Direttore di Academia de ?a ?engua Veneta, dipartimento linguistico di Academia de ?a Bona Creansa – l’allarme linguistico che i consiglieri di opposizione esprimono sulla situazione linguistica italiana commentando la possibilità di insegnamento del veneto nelle scuole.

Il timore, fondato su un comune buon senso, è che aggiungere una qualunque lezione di qualunque materia sarebbe un errore: se riferiscono che l’italiano è in difficoltà, ogni sforzo aggiuntivo dovrebbe essere concentrato sull’italiano, per “evitare errori di terza elementare nelle tesi di Laurea”, come sintetizzò qualcuno.

Giusta la rilevazione del problema, però forse un po’ affrettata l’analisi delle cause, che, se errata, conduce ad una soluzione irrilevante rispetto al problema, o addirittura controproducente.

Anzitutto, non essendo mai stato insegnato a scuola, non è certo colpa del veneto se mediamente in tutta Italia la competenza in lingua italiana è scadente. In generale, non è mai colpa di un’altra lingua se non hai imparato bene questa qui. Altrimenti, si giungerebbe alla pericolosa convinzione che le ore spese per imparare l’inglese siano ore sottratte all’italiano, o, per alcuni un po’ turboprogressisti, visto che ormai l’inglese è la lingua mondiale, sarebbe l’italiano ad essere quello di troppo, quello che sottrae ore preziose. Un ragionamento puramente utilitarista questo, che in tanti mio malgrado fanno già. Attenzione quindi: se si insiste a predicare il monolinguismo, appena dopo le lingue locali a farne le spese sarà l’italiano stesso.

Ma allora il caso del veneto ci offre una finestra di pensiero, una possibilità di cambio di paradigma. Perché se la situazione attuale non è soddisfacente, fanno bene gli stessi consiglieri a guardare fuori, ad altri modelli, specialmente a guardare a nord: non solo in Finlandia, ma magari anche nei paesi come la Norvegia, dove il norvegese, una lingua un po’ più piccola del veneto, vede convivere due standard (bokmål e nynorsk) entrambi insegnati a scuola ed entrambi usati negli uffici pubblici. Più in generale, nelle scuole si insegna a gestire quelle ineliminabili differenze territoriali in cui una lingua viva per definizione si realizza. Sempre in Norvegia, come in Danimarca e in Svezia, si insegnano poi le competenze di intercomprensione tra norvegese, danese e svedese, lingue diverse ma della stessa famiglia: aprirsi alle lingue, avendone gli strumenti da piccoli linguisti, fin da giovanissimi. Se modello scandinavo delle lingue dev’essere, modello scandinavo sia: per loro, indubitabilmente, nelle nostre scuole il veneto dovrebbe essere insegnato già da anni.

E se quindi l’educazione al plurilinguismo tramite il bilinguismo fosse quell’anticorpo che fa vincere tutte le lingue? Se il plurilinguismo fosse una pratica eccezionalmente efficiente che tramite il veneto allena i nostri ragazzi ad essere recettivi e attivi nell’apprendimento linguistico in generale? E se infine il plurilinguismo fosse quel valore civile fondamentale che impone rispetto e vero incontro per il croato di Suzana, l’albanese di Aureljan e che contemporaneamente valorizza il veneto parlato da Marco imparato dal nono Joani, che non ha nulla di deteriore nel suo nome se solo ci ricordiamo che il latino è Johannes? E se ci aggiungessimo che Suzana e Aureljan sentono continuamente questa lingua veneta, che non si impara a scuola, ma che tutti parlano – anche a volte i loro stessi genitori che hanno scelto il Veneto come terra d’elezione – lingua che invece loro sono condannati a non poter conoscere nemmeno di striscio? Se il veneto oggi non è ancora nelle scuole, è per una sorta di finzione scolastica: la realtà, quella dei dati Istat 2015, è che la lingua veneta in Veneto c’è, e si sente, è solida, e viene parlata da milioni di persone, anche fuori Regione e anche in altri Stati, come la Slovenia, la Croazia, il Messico e notoriamente il Brasile! A scuola il veneto non c’è, ma fuori dei cancelli degli istituti veneti sì: è bilinguismo! Bello, sano, vivo!

Per fare una giusta analisi però, perché il problema insegnamento efficace dell’italiano permane, vorrei contribuire con alcuni numeri all’analisi che sicuramente i consiglieri avranno approntato per loro conto: l’italiano, insegnato per 5 ore la settimana, conta un monte ore di circa 2600 unità dalla prima elementare al diploma. Le ore dedicate all’inglese sono solitamente 3 la settimana, quindi circa 1600 nel cursus fino al diploma. Tuttavia, anche tutte le altre ore di lezione a scuola sono tenute in lingua italiana: altre circa 8000 ore di esposizione, tra storia, scienze, matematica. E questo solo a scuola. A casa si raddoppia tutto con i compiti. Poi, l’italiano è la lingua ufficiale dello Stato in cui sei nato e ti trovi e che viene usata da tutti i media, tutte le scuole, in tutte le ore, in tutti i libri, in tutte le comunicazioni ufficiali, nella segnaletica. Ecco.
Davvero è verosimile che in tutto questo quadro l’italiano si trovi in emergenza perché serve un’ora in più la settimana? Sarebbe efficiente?

Anche perché, diciamocelo: l’apprendimento del veneto non è un valore locale o “roba da Veneti”. Apprendere o almeno saper gestire la lingua del posto dove si giunge o comunque dove ci si trova, è una competenza fondamentale per l’essere umano in questo secolo globale. In vero, è sempre stato così, visto che per esigenze evoluzionistiche il nostro cervello, come si osserva a livello neurolinguistico almeno da Chomsky in avanti, è letteralmente fatto per imparare le lingue. Non “la lingua”, ma “le lingue”.
Tutti gli studi sul bilinguismo e i suoi benefici ci parlano di un grande interesse linguistico ed educativo nell’avere a che fare con più lingue, anche e soprattutto a scuola! La scuola ti prepara al mondo, e il mondo è multilingue, e il veneto ne fa parte, e ‘sta lingua ce l’hai a portata d’orecchio.

Ma poi è così vero che il veneto non ha una utilità intrinseca, linguistica, tutta sua? Un esempio? Anzi due. La sintassi veneta impone per norma il soggetto espresso (come l’inglese o il francese, mentre è solo facoltativo in italiano): se pensi alla veneta, non salti il pronome soggetto obbligatorio, che è uno degli errori più frequenti che gli studenti italiani compiono in inglese. In più, la frase interrogativa veneta richiede l’inversione grammaticale soggetto-verbo come l’inglese, il francese e il tedesco. L’inglese “You are crazy. Are you crazy?! in veneto diventa “Te si mato. Sito mato?”.

Questa regola dell’inversione vale uniformemente per tutte le varietà della lingua veneta (che hanno infatti la stessa struttura, dal veronese al trevisano, dal bellunese al rodigino). Questa struttura che troviamo in veneto e in inglese è invece radicalmente assente, ed anzi impossibile, in italiano. Perché non rivelare allo studente che col veneto ha uno strumento in più che non sapeva di avere? E per migliorare nientemeno che l’inglese! E sono solo due esempi. Potremmo parlare dei verbi frasali o di alcuni elementi di fonologia delle consonanti che l’inglese e il veneto hanno in comune ma che sono assenti in italiano.

Davvero è possibile ritenere catastrofico l’insegnare il veneto un’ora la settimana, anche facoltativamente (si può fare come si fa con religione), anche solo per un paio di mesi come per i Percorsi di Lingua Veneta, o per progetti didattici che inquadrino la lingua veneta come mezzo per maturare competenze linguistico-formative più ampie?

Per i docenti universitari di glottodidattica, non solo non è catastrofico, ma sarebbe invece auspicabile. Da fare già domani. Metodi, strategie e materiali per un bilinguismo c.d. regionale sono predicati da anni dalle istituzioni europee, sono studiati da anni nei dipartimenti di lingue delle università di mezzo mondo, anche nella vicina Ca’ Foscari. Per esempio, si può usare il CLIL (Content and Language Integrated Learning) per insegnare il veneto facendo matematica o geografia; oppure si può usare il sistema dell’intercomprensione tra le lingue romanze dei Sette Setacci (che c’è anche in versione veneta, grazie all’università di Francoforte: “I Sete Tamizi – ?a ciave par capir tute ?e ?engue romanse”).

Nei Percorsi di Lingua Veneta già tenuti con circa 260 studenti in tre istituti di diversi comuni, si è usato quest’ultimo metodo come fattore guida. E si sono utilizzati gli stessi materiali anche in province diverse, perché il tessuto linguistico veneto è lo stesso.

L’obiettivo, perseguito con azioni specifiche e localizzate, diventa però sistemico: è il rinforzo di tutto l’apparato delle lingue, concepito come un corpo completo. Se l’italiano allena solo la gamba sinistra e il braccio destro (perché nessuna lingua allena tutte le possibilità: questo è un principio fondamentale della linguistica), e il paziente lamenta frequenti e gravi mal di schiena, che non lo fanno camminare (quindi non riesce ad utilizzare bene nemmeno le parti allenate), quale ortopedico darebbe come prescrizione risolutiva una ulteriore palestra di rinforzo selettivo del quadricipite femorale sinistro? Se il ragazzo che vede il mondo attraverso il monocolo del monolinguismo rimane affranto o annoiato dal non avere prospettiva, quale oculista gli consiglierebbe di aumentare lo spessore della lente del monocolo? Perché non provare, cautamente, a fargli aprire anche l’altro occhio?
In altre parole, perché ignorare una lingua importante come il veneto, che è qui, è viva, è parlata, è ricca, è la lingua di questo territorio da mille anni? Mille anni! Dieci secoli!

Non si cammina meglio con due gambe piuttosto che con una? Non ascoltiamo le armonie in stereo, perché in mono suonano piatte e noiose? E non serve a nulla ascoltarle di più! E allora, come per la musica, anche per la questione del veneto, accendiamo lo stereo: e l’armonia ci stupirà.

Insomma, se siamo tutti già mezzi bilingue, forse l’antica raccomandazione veneta oggi si può declinare scherzosamente così: “no sta’ far el mono!” In spagnolo, “el mono” è la scimmia.

E allora, “No sta’ far el mono. A ze mejo èsar bi?engue!”.