Lavoro, ecatombe mondiale. Ogni giorno 7.500 morti tra incidenti e malattie

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donne e lavoro
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L’anno scorso in Italia sono stati 1.133 i morti sul e di lavoro, con oltre 600 mila infortuni. Ma la strage continua e peggiora: al 31 ottobre i morti sono già 1.222 lavoratori, compresi quelli sulle strade e in itinere, dei quali 606 sui luoghi di lavoro. Le vittime sono 17mila negli ultimi dieci anni. Un trend che accomuna il nostro Paese al resto del mondo: a un secolo dalla fondazione dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Ilo) ogni giorno nel mondo 7.500 persone muoiono per il lavoro: mille per incidenti, altri 6.500 per malattie professionali. Nel 2017, secondo i dati internazionali più aggiornati raccolti dall’Ilo, ci sono stati 2,78 milioni di morti per il lavoro: 365mila per incidenti e altre 2,4 per malattie professionali. La carneficina è cresciuta del 20% solo negli ultimi tre anni: da 2,33 milioni di vittime nel 2014 a 2,78 milioni nel 2017. Ma la mancanza di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro è una vera pandemia: ogni anno 374 milioni di lavoratori restano vittima di incidenti o si ammalano per cause legate al lavoro. Solo i giorni di lavoro persi per cause legate ai problemi di salute e sicurezza sul lavoro rappresentano quasi il 4% (il 6% in alcuni Paesi) del prodotto interno lordo globale, oltre 3.200 miliardi di dollari l’anno, pari alla somma del Pil dell’Italia e della Spagna nello stesso anno.

Le risorse impiegate per contrastare il fenomeno non solo non bastano, ma spesso vengono tagliate. Gli ultimi dell’Inail segnalano però che in Italia le ispezioni sono diminuite del 9% quest’anno, mentre le irregolarità accertate sono cresciute del 3%. Crescono le denunce delle malattie professionali come pure le malattie “tabellate” che esonerano i lavoratori dall’onere della prova: per l’Inail sono 41mila, 800 in più rispetto al 2018. nel primo semestre del 2019 le denunce per caporalato sono triplicate a 263 (rispetto allo stesso periodo del 2018), mentre i lavoratori in nero scoperti sono calati a 20.398 dai 23.300 dell’anno scorso.

Gli incidenti più gravi, per quanto eclatanti, sono solo la punta dell’iceberg. Il 24 aprile 2013 il crollo dell’edificio Rana Plaza che ospitava cinque fabbriche di abbigliamento a Dhaka, in Bangladesh, uccise almeno 1.132 persone e ferì oltre 2.500. Il 25 gennaio scorso nella città brasiliana di Brumadinho dello Stato del Minas Gerais il crollo di una diga nel complesso minerario di ferro gestito dalla società Vale ha ucciso oltre 300 persone. Un incidente simile nello stesso stato nel 2016 aveva fatto 19 morti. L’Italia ricorda ancora la strage del 6 dicembre 2007 nello stabilimento della società tedesca ThyssenKrupp di Torino: otto operai furono coinvolti nell’incendio scoppiato in una linea di produzione per assenza di manutenzione. Sette di loro (Antonio Schiavone, 36 anni; Angelo Laurino, 43 anni; Roberto Scola, 32; Bruno Santino, 26; Rocco Marzo, 54; Rosario Rodinò, 26; Giuseppe Demasi, 26) morirono nel volgere di un mese per le ustioni, mentre Antonio Boccuzzi, 34 anni all’epoca, subì ferite non gravi. Per quella strage nel 2016 la Cassazione confermò le condanne a 9 anni e 8 mesi del dirigente tedesco Harald Espenhahn e quelle di altri cinque manager (Cosimo Cafueri, Daniele Moroni, Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno) a pene complessive di oltre 31 anni.

Ma altre vicende, come quella delle centinaia di morti a Casale Monferrato per l’amianto dell’Eternit, hanno visto pene risibili. Eppure di malattie collegate al lavoro si muore in tutto il mondo, soprattutto per quelle del sistema circolatorio (31%), per i tumori (26%) e per le malattie respiratorie (17%) che contribuiscono a quasi i tre quarti della mortalità globale correlata al lavoro. Sono proprio le malattie professionali la prima causa dei decessi correlati al lavoro (2,4 milioni, l’86,3%), mentre gli infortuni costituiscono il restante 13,7%.

Insieme, le morti da lavoro ogni anno rappresentano dal 5 al 7% delle morti globali. Le aree più colpite sono l’Asia, con il 65% della mortalità globale da lavoro, l’Africa (11,8%), l’Europa (11,7%), le Americhe (10,9%) e l’Oceania (0,6%). I dati riflettono la distribuzione della popolazione attiva mondiale e dei lavori pericolosi, come pure i diversi livelli nazionali di sviluppo economico. Ma l’analisi dell’indice degli incidenti mortali sul lavoro ogni 100mila lavoratori mostra forti differenze regionali: gli incidenti mortali in Africa e in Asia tra 4 e 5 volte superiori a quelli in Europa.

Nessun settore è al sicuro, nemmeno il mondo apparentemente dorato di Hollywood. Nel 2007 durante le riprese del “Il cavaliere oscuro”, il cameraman Conway Wickliffe morì schiantandosi contro un albero con la sua auto mentre seguiva la batmobile. Nel 2009 lo stuntman David Holmes restò paralizzato per un’esplosione mentre girava “Harry Potter e i doni della morte”. Una stuntwoman subì danni cerebrali permanenti nel 2010 sul set di “Transformers”. Nel 2011 lo stuntman Kun Lieu morì per un’esplosione accidentale durante le riprese di “The Expendables 2”. Nel 2014 l’assistente alla macchina da presa Sarah Jones fu uccisa da un treno merci mentre girava “Midnight Rider”. L’anno dopo la stuntwoman Olivia Jackson subì l’amputazione di un braccio per un incidente in moto sul set di “Resident Evil: Capitolo finale”.

Tra i fattori che nei prossimi anni faranno la differenza per la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, secondo l’Ilo, saranno tre le forze dominanti: la tecnologia, la demografia e lo sviluppo sostenibile. Servirà un’opera di coinvolgimento delle imprese private, specialmente delle micro, piccole e medie imprese che generano oltre il 50% dei nuovi posti di lavoro a livello globale con un’occupazione molto maggiore delle grandi aziende, ma troppo spesso con posti di lavoro poco retribuiti, poco qualificati e assenza di condizioni di lavoro dignitose e sicure. Proprio il legame tra salute e sicurezza sul lavoro e salute pubblica è uno dei temi centrali nell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Ma nel prossimo decennio, se non si invertirà la tendenza in atto, di lavoro potrebbero morire 30 milioni di persone, metà della popolazione italiana.

di Nicola Borzi da Il Fatto Quotidiano