La Fondazione Roi é lo specchio della crisi della società vicentina e mons. Gasparini ne è il testimonial

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Il rapporto tra la Fondazione Roi e la comunità di Vicenza è uno dei tanti punti oscuri che ha caratterizzato la vicenda della BPVi. I media locali come quelli nazionali hanno più volte toccato l’argomento. La nostra testata ha sviscerato la materia dedicando tanti  approfondimenti all’argomento  e raccogliendo quelli della corposa denuncia dei fatti più eclatanti nel volume “Roi. La Fondazione demolita“. Più in generale si può dire che l’arrivo alla Roi del nuovo presidente Ilvo Diamanti era stata salutata con molto favore poiché la presenza del sociologo vicentino alla testa del cda era stata vista come una opportunità per rimuovere gran parte delle incrostazioni dell’era Zonin.


Una eredità pesante quella del cavalier Gianni che costò al lascito del marchese Boso una batosta da una trentina di milioni di euro solo per le azioni «patacca» dell’istituto di via Framarin rifilate, proprio quando Zonin presiedeva Banca Popolare di Vicenza e Fondazione, a quest’ultima, per non parlare dell’acquisto dell’ex Cinema Corso.

Le cose però, come le cronache hanno evidenziato un po’ alla volta, sono andate male. Le attese, ci si perdoni il bisticcio lessicale, sono state disattese. E la vicenda si è uniformata ad un cliché di stampo gattopardesco che da secoli caratterizza il nostro Paese. Tra i meriti che il cda sotto la guida di Diamanti si era cucito addosso c’era quello di avere in qualche modo chiesto ai quattro membri della precedente gestione (mons. Francesco Gasparini, Giovanna De Vigili Kreutzemberg Rossi di Schio, Emilio Alberti e Giovanni Carlo Federico Villa) di dimettersi in segno di discontinuità col passato. Più nel dettaglio questa asserita richiesta di dimissioni era stata più volte sbandierata dal vicepresidente del cda, il dottor Andrea Valmarana.

Come riferito tempo fa chi scrive aveva avuto la possibilità di parlare durante un lungo colloquio, con un altro componente dello stesso cda, ovvero, monsignor Francesco Gasparini, direttore del Museo diocesano (nella foto col ritratto del Vescovo Matteo Priuli acquistato con i contributi della Fondazione, ndr). Da quel colloquio è emerso chiaramente che, almeno secondo il nostro interlocutore, il dottor Valmarana, mai e poi mai rivolse ai vecchi membri l’invito di cui invece si parlò sui media. Da questo punto di vista se i due la pensano e la dicono in modo tanto diverso, è bene che si chiariscano bene tra di loro: perché la città una risposta, intellettualmente onesta e interamente veritiera, la merita sul serio.

Tuttavia da quel colloquio con Gasparini emerse un altro aspetto. Il nostro monsignore tenne a precisare di come fosse nettamente contrario all’idea di un nuovo statuto per la Fondazione che in ossequio ai desiderata dell’ex vicesindaco Jacopo Bulgarini d’Elci spostasse in maniera maggiore l’asse della governance della Roi verso la cabina di controllo della giunta comunale.

Da questo punto di vista occorre fare una considerazione specifica. Monsignor Gasparini ha, molto, astrattamente, una qualche motivazione quando definisce logica la sua presenza nel cda, decisa da Zonin, visto che il marchese beneficiò anche il Museo diocesano, che, infatti, ha una sezione a lui dedicata, pur se Boso Roi fece questo con un atto separato dal lascito per la Fondazione vincolato al Museo Civico di Vicenza, alias Palazzo Chiericati e poco più…

Questo lascito ha una sua fisionomia anche giuridica particolare. Concepito con un oggetto civico, una origine privata, vedeva nella banca cittadina, con i suoi rapporti ramificati, il garante operativo. Si trattava di una struttura tutto sommato ascrivibile alla eredità dell’Italia ottocentesca nella quale si cercava di trovare la quadra tra gli ambiti del potere laico massonico, tradizionale religioso e civico: il tutto nel segno della cultura che avrebbe dovuto miscelare e rendere fertile questo amalgama.

Criticabile o meno si trattava di una impostazione che in quell’epoca aveva un senso, un capo ed una coda. Da questo punto di vista quindi il mugugno di Gasparini contro il “Comune”, collegabile alla vicinanza del marchese Roi anche al Museo da lui diretto, ha una ragion d’essere poiché non è pensabile che un soggetto ancorché pubblico, ma evidentemente espressione di una parte politico-sociale, possa arrogarsi di prenderne il timone. Sia che si tratti di stabilire la rotta sia che si tratti di decidere come usare il comunque cospicuo patrimonio del lascito. Il monsignore però nel distillare un giudizio del genere avrebbe dovuto tenere conto della sciagura occorsa alla Roi durante l’era di Gianni Zonin, quando quest’ultimo pur godendo della più ampia autonomia (e quindi al riparo da condizionamenti vari a meno che questi non fossero inconfessabili o indicibili) combinò quello che le cronache hanno raccontato.

Allo stesso modo monsignor Gasparini dovrebbe convenire che i quattrini destinati, con lui stesso in cda, alla organizzazione delle mostre di Marco Goldin o quelli finiti più volte al “suo” museo Diocesano, addirittura da lui valutate “troppo basse” rispetto  a quelle destinate al Chiericati, che pure dovrebbe essere l’unico beneficiario della Roi insieme agli altri due musei storicamente civici (quello del Risorgimento e l’altro naturalistico archeologico, di là di inutili elucubrazioni sulle cifre in ballo o sul senso del termine civico in relazione al dettato dello statuto, poco o nulla c’azzeccano con la «mission» della Roi.

Da questo domino poco entusiasmante che negli ultimi anni ha caratterizzato la fondazione emerge quindi un quadro poco confortante. Dopo tante macerie ci si aspettava che il lascito potesse risorgere proprio in ragione del fatto che gli errori del passato, volontari o meno che fossero, qualcosa avessero pur insegnato. Quando un determinato territorio è sconvolto da un trauma sociale solitamente ci sono due modi per venire fuori da una situazione di crisi. Nel primo caso le classi dirigenti si auto-riformano profondamente lasciando spazio a quei settori che nel passato hanno dimostrato con coerenza distanza e opposizione a condotte improvvide. Nel secondo caso, a fronte di una élite che è trasversalmente ed ottusamente legata alle sue rendite di posizione, è la base popolare che spingendo dal basso, dopo avere elaborato una idea valida, migliorativa e coerente di nuova società, pone le pressioni del caso perché tale rinnovamento si inveri: così è se si vuole rimanere nell’alveo della cosiddetta democrazia. Purtroppo a Vicenza, ma non solo, sia la base che il vertice della piramide, sono da tempo approdati ad una fase di stasi. Si tratta di una astenia antropologica, prima che sociale o politica, che il Vicentino purtroppo pagherà a caro prezzo.