La famiglia nel corso dei secoli. “Agorà. La Filosofia in Piazza”: tra costanti universali e variabili antropologiche

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La famiglia nel corso dei secoli
La famiglia nel corso dei secoli

Approfittiamo dell’uscita infelice di Antonio Tajani sulla famiglia naturale, ovviamente su Facebook, e del fatto che il 15 maggio si è celebrata la Giornata internazionale delle famiglie (e non della famiglia, si noti bene), istituita nel 1994 dall’Assemblea Generale dell’ONU per chiarire volentieri alcuni aspetti che ruotano intorno alla connotazione naturale e sociale di quella istituzione che chiamiamo famiglia.

Intanto ci sembra opportuno chiarire in primo luogo un paio di questioni preliminari: di cosa parliamo quando parliamo della famiglia? Quali sono gli elementi che perdurano nel tempo e che ci permettono di definire cosa resti della famiglia durante i secoli e cosa sopravviva alle crisi, di cui si è sempre parlato sin da quando è nata la famiglia?

C’è una definizione di carattere antropologico di Claude Lévi-Strauss che potrebbe tornarci utile. Lo studioso francese ritiene che la famiglia sia sostanzialmente l’unione più o meno durevole e socialmente approvata, di un uomo, una donna e dei loro figli. È una definizione curiosa, che si sofferma su alcuni aspetti epocali, storicamente determinati, da cui si ricavano delle costanti, come, appunto, la durata e l’approvazione sociale[1].

La definizione di Lévi-Strauss nasceva nell’ambito di quello che era lo strutturalismo francese, un orientamento antropologico teso pregiudizialmente ad indagare le altre civiltà nel tentativo di sfrondare, come si fa per mondare un carciofo, le variabili dipendenti dalle specifiche incrostazioni culturali al fine di dimostrare che vi sono delle strutture universali nell’essere umano.

Negli stessi anni, ma in tutt’altro contesto, cioè quello della sociologia americana, Talcott Parsons si soffermava sulla famiglia, ma a partire dello studio delle sue funzioni e distinguendo tra la necessità di avere in un famiglia un leader strumentale, forte, in grado di esercitare il potere sugli altri membri, dettare le regole, lavorare e portare il pane a casa, che era rappresentato, ovviamente dal padre, il quale non doveva eccedere in sentimenti di vicinanza, affettività e solidarietà, e un leader espressivo, la madre, che aveva il compito di trasmettere sentimenti positivi all’intero nucleo famigliare, come simpatia ed empatia, doveva comportarsi come complice e angelo del focolare[2].

Molto presto il modello di Parsons, che puntava sulla complementarietà di queste funzioni, in quanto garanzia della buona riuscita della famiglia, del suo successo e foriera di approvazione sociale, anziché restare un tentativo di analisi, divenne un veicolo normativo di affermazione di un determinato modello di famiglia ideale, supportato in ciò anche dalla psicoanalisi di Sigmund Freud.

Non solo, in maniera piuttosto pregiudiziale, cioè in base a quelli che sono i complessi morali di riferimento degli autori, ancora oggi le teorie sulla famiglia tendono a dividersi in due principali tronconi: c’è chi pensa che la famiglia sia una struttura naturale e universale, posizione che ha dei fondamenti addirittura in Aristotele e trova terreno fertile nel sostegno da parte dei pensatori cattolici e conservatori, come Tajani in sostanza, i quali ritengono che la famiglia sia radicata in una struttura ontologica dei rapporti tra uomo e donna, in accordo a dei bisogni definiti naturali dell’essere umano; ma c’è anche chi ritiene che la famiglia sia un’istituzione culturale, che deve essere considerata in una dimensione storica ed evolutiva, infatti da Platone fino ad autori come David Cooper[3] e R. D. Laing negli anni ’70 c’è chi ha pensato che la stagione della famiglia potesse anche ritenersi conclusa, al fine di accedere a forme di aggregazione comunitarie più libere, solidali e felici.

Per non parlare, poi, di tutte quelle teorie che insistono sulle variabili specifiche esistenti, che pur concorrono alla definizione della famiglia da un punto di vista fattuale e giuridico, tra cui quelle che si soffermano sulla presenza o meno di figli oppure quelle che pretendono la legittimazione, anche questa sociale, della possibilità o eventualità di poter costituire coppie omosessuali.

È piuttosto evidente, dunque, che, come tutte le istituzioni, soggette a cambiamenti storici, politici e giuridici, la famiglia appare molto spesso come un Test di Rorschach, cioè come quelle macchie sui fogli che gli strizzacervelli mettono sotto gli occhi dei loro pazienti per comprendere qualcosa in più della loro personalità, del loro umore e della loro situazione affettiva.

È accaduto molto spesso che le teorie degli studiosi, fatte di ipotesi, di un linguaggio, di determinati concetti e parole, abbiano poi influenzato l’agire sociale, così come è storicamente accaduto che la posizione di Parsons abbia apposto un certificato di legittimità su uno specifico status quo, che costringeva la donna a rassegnarsi a mantenere quella posizione sociale subalterna, costretta all’irrilevanza economica, pur di rasentare l’onorabilità, la mancipatio dal marito e non l’emancipatio, che poi si è realizzata in tutto il mondo occidentale e da cui non si può prescindere.

Anche nel rapporto con le altre culture, ad esempio con quella fetta del mondo islamico che ancora mantiene l’istituto della poligamia, la riprovazione occidentale insiste molto sul fatto di ritenere la monogamia una caratteristica imprescindibile di un certo livello di civiltà. Ma che cosa succederebbe a livello linguistico e cognitivo se provassimo ad ammettere che, così come vi è una poligamia sincrona nell’Islam, in Occidente siamo soliti praticare una poligamia asincrona (anche tra i cattolici e i conservatori), descrivendo una situazione di fatto in cui si legittima l’entrata e l’uscita dal matrimonio, inteso sempre più come una unione caratterizzata dalla scelta e non più dal destino? Potrebbe questa riconsiderazione della liceità morale della revisione dei rapporti che non funzionano permetterci di rivedere la nostra distanza da altri popoli, che evidentemente si assottiglia, mentre si allontana sempre di più da una concezione dell’impegno sentimentale e poi matrimoniale come definitivo, unico?

È evidente, dunque, che la famiglia non sia altro che una costruzione culturale, oggetto di evoluzione nel tempo. Ciò non vuol dire, tuttavia, che una volta abbandonato definitivamente il paradigma della naturalità della famiglia, legato più che altro all’affermazione di un determinato modello storico, non si possa affermare e rivendicare la positività esperienziale della famiglia monogamica all’interno della quale uno/una ha scelto di vivere: sarebbe una prospettiva molto più onesta intellettualmente, di sicuro sarebbe più liberale e inclusiva, rispettosa della vita e dei bisogni e dei diritti degli altri e magari anche più proficua come strategia, dal momento che la vita esemplare è molto più convincente di parole che non corrispondono alla realtà, vale sempre il monito: verba volant, exempla trahunt.

[1] Cfr. C. Lévi-Strauss, Razza e storia-Razza e cultura, Einaudi, Torino 2002.

[2] Cfr. T. Parsons, R.F. Bale, Famiglia e socializzazione, Mondadori, Milano 1974.

[3] Cfr. D. Cooper, La morte della famiglia, Einaudi, Torino 1976.


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a cura di Michele Lucivero

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