Julian Assange detenuto nella famigerata Belmarsh, la “Guantanamo inglese”: eppure la nostra libertà è quella sua

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Assange detenuto a Belmarsh, la Giuantanamo inglese (ALBERTO PEZZALI / NURPHOTO)
Assange detenuto a Belmarsh, la Giuantanamo inglese (ALBERTO PEZZALI / NURPHOTO)

Come su tanti fatti (non ultimo quelli relativi ai morti sul lavoro) sono pochissimi gli organi di informazione che non “oscurano” le notizie che li trattano e così accade per Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, che, pure, sul suo sito, fermo al 2019, elenca una serie prestigiosa di media “Co-publishers, Research Partners and Funders“.

Di Julian Assange ora e da tempo non si parla più (l’articolo su Il Fatto QuotidianoAssange non fa più notizia e gli Usa ne approfittano” è solo l’eccezione che conferma la regola) eppure è detenuto in una prigione di massima sicurezza della Gran Bretagna (la famigerata Belmarsh, la “Guantanamo inglese“) da oltre un anno in attesa di estradizione verso gli USA, senza condanne (cfr. 3 marzo 2020 “Julian Assange e Wikileaks mo al 2019, sotto processo a Londra, VicenzaPiù con i No all’estradizione in Usa: “la libertà di Assange è la nostra libertà“).
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La Gran Bretagna è una delle “culle della democrazia”, ma quando si tratta di reprimere chi è “scomodo” lo fa con la brutalità di regimi definiti “incivili” (si abbia memoria della terribile vicenda di Bobby Sands e dei suoi compagni morti di fame in carcere)
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Dovremmo protestare e sulla vicenda di Assange dovrebbero unirsi tutti quelli che si indignano come succede nel mondo per l’uccisione di George Floyd, ma così non è. Si stenta ad avere coscienza che le accuse ad Assange mirano a zittire una voce libera e scomoda. E non importa se Assange sia una persona simpatica o antipatica. se può risultare arrogante o meno. La sua vicenda investe la possibilità di diffondere notizie più o meno scomode al potere e, questa, non è un “affare da tifosi”. Se Assange fosse estradato in USA vorrebbe dire che viviamo in un sistema che vuole cancellare la libera espressione e che è possibile diffondere sostanzialmente le notizie “neutre”, quelle che non “recano danno” al sistema stesso. In un regime poco diverso da quelli che guardiamo con raccapriccio. Niente di meno e forse di più del 1984 di Orwell.
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Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.