Il significato delle crisi economiche per la filosofia e le scienze umane: un motore per il pensiero

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Prima di affrontare un tema così complesso, quale potrebbe essere, effettivamente, quello delle crisi economiche, con tutti i disagi che esse arrecano, ma anche con le eventuali opportunità che esse aprono, per onestà intellettuale occorre precisare che non siamo economisti, circostanza che potrebbe configurarsi anche come un vantaggio dal punto di vista della chiarezza, vantaggio che perdiamo rovinosamente nel momento in cui ci palesiamo come studiosi di filosofia.

L’argomento della crisi economica richiederebbe, per essere approfondito, una correlazione di competenze davvero eterogenea, che va della statistica all’economia politica per finire alla geopolitica, soprattutto in questa fase caratterizzata dall’interdipendenza globale, tuttavia, la nostra formazione storico-filosofica, accanto alla professione di docente di scuola secondaria e alla competenza maturata in un dottorato di ricerca in “Etica e Antropologia”, traccia le coordinate all’interno delle quali inserire il percorso di approfondimento sulla crisi, il che non è, evidentemente, garanzia di chiarezza.

Così come ci sembra opportuno chiarire che lo scopo di questo affondo storico-filosofico nell’economia è proprio quello di sottrarre quest’ultima all’esclusivo appannaggio dell’approccio matematizzante e di quello del libertarismo consequenzialista, cioè di quella scuola economica, che annovera tra i suoi rappresentanti il premio Nobel per l’economia Milton Friedman, ma anche Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, i quali ritengono che ciò che conta nell’economia è il calcolo costi-benefici, a prescindere da valutazioni morali su eventuali frodi o azioni illecite, perché alla fine occorre soprattutto giudicare le azioni economiche in base all’efficacia delle conseguenze in termini di felicità e prosperità collettiva.

E, allora, cercheremo in diversi interventi di analizzare il tema della crisi economica da un punto di vista che intende valorizzare la dimensione etica a antropologica, senza accedere a dimostrazioni per mezzo di modelli matematici, per comprendere se vi sono margini per pensare diversamente, per capire se la crisi non sia, piuttosto, un modo per cercare soluzioni differenti ai problemi che attanagliano i comportamenti umani che rientrano nella sfera economica.

Nel testo-inchiesta veramente utile per comprendere i fenomeni economici e politici legati alla crisi degli ultimi anni Aldo Giannuli[1] esordisce riferendo che nel 2006 l’economista Nouriel Roubini in un dibattito del Fondo Monetario Internazionale intervenne prefigurando la catastrofe finanziaria, ma poiché questa previsione non era sviluppata su un modello matematico, venne messa a tacere e Roubini venne ritenuto nientemeno che uno iettatore. Nel 2008, quando s’incominciò a intravedere la genesi della bolla immobiliare americana, si andò a bussare alla porta di Roubini e a chiedere cosa avesse prefigurato per quella crisi che, in qualche modo, intuitivamente aveva previsto.

La sola analisi storica dell’andamento economico dell’Europa, del resto, dovrebbe essere sufficiente per testimoniare la particolare ciclicità dell’economia, caratterizzata da periodi di crisi ai quali seguono periodi di benessere. È chiaro che, nonostante i passi avanti fatti dalla scienza, noi umani non siamo ancora in grado di prevedere nulla degli eventi che riguarderanno il nostro futuro.

Tuttavia, è un segno di prudenza, molto apprezzata in ambito filosofico, davanti a scenari di cui non si conoscono le conseguenze, prefigurarsi soprattutto le deviazioni peggiori che il corso della storia possa prendere, al fine di impegnare adeguatamente gli addetti ai lavori, i politici, gli intellettuali e gli economisti, che hanno il potere di intervenire sulla realtà, di correre ai ripari e avere sotto chiave i correttivi necessari da intraprendere, sperando anche di non doverli mai utilizzare.

Già questo approccio, che non vuole essere semplicisticamente catastrofista, ma prudentemente saggio, sarebbe auspicabile sia per le scienze, quelle legate all’innovazione tecnologica, che pur devono impegnarsi nella ricerca di risorse energetiche alternative, dal momento che prima o poi si scontreranno con l’esaurimento di quelle naturali, sia per le scienze umane, che devono preparare l’uomo a reagire in caso di mutamenti improvvisi delle condizioni di esistenza.

I periodi di crisi, in fondo, si rivelano i momenti più fecondi per lo sviluppo del pensiero, giacché la ricerca di soluzioni mette in moto i cervelli e fa sì che gli addetti ai lavori prendano in considerazione anche le teorie che nel corso regolare erano escluse. Infatti nei momenti in cui tutto funziona non si vede il motivo per cui bisognerebbe cambiare rotta e dare credito a soluzioni alternative, mentre nei momenti di crisi vi è la necessità di pensare diversamente.

Da questo punto di vista, è evidente che la prefigurazione di scenari ottimistici coglierebbe impreparati gli uomini e le donne, sorpresi a crogiolarsi pigramente nel migliore dei mondi possibili, per cui una buona dose di scetticismo non farebbe mai male.

[1] A. Giannuli, 2012: la grande crisi, Ponte alle Grazie, Milano 2011.

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a cura di Michele Lucivero

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