Il degrado culturale fatto di tasti, display, like ed emoticon

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Degrado: è una delle parole che sempre più spesso si pronunciano nei nostri sempre meno frequenti colloqui reali, si ascoltano in tv e in radio, si scrivono  e si leggono sui social e sulla stampa, tradizionale o web che sia.

E degrado è sempre associato alle zone centrali, ai parchi o ad altri luoghi delle nostre città e cittadine, invase da eserciti di stranieri pestilenziali e, perciò stesso, in disfacimento fisico.

Poco importa, perché poco lo notiamo e lo vogliamo ammettere, che l’incuria dolosa o inconsapevole delle nostre piazze, delle nostre vie e dei nostri parchi o luoghi pubblici l’abbiamo insegnata, anche e primigeniamente, noi ai nostri “ospiti”. Di carte, plastiche e bottiglie a terra sono piene le nostre città, i nostri monti e i nostri mari; da urla e strepiti sono spaccati i nostri timpani ovunque e in ogni ora. Tutto questo  in un crescendo che parte dai sani ceffoni e dai necessari rimproveri non più dati ai nostri figli, fin dalla loro più tenera età lasciati nella piena libertà di fregarsene della libertà di tutti di godere il bello e il buono.

Sono sicuro che se mai qualcuno leggerà queste riflessioni sarò subito tacciato di non so quale terribile misfatto, oltre a quello della senilità incombente, ma a costoro faccio un solo esempio, che fa parte di una delle mie “vite” precedenti, quella del volley.

Sapete quali parole nella squadra cittadina di Vicenza e, prima, di Roma imparavano le giocatrici straniere, non importa se le politically correct, a casa loro, statunitensi, o le educatissime, quasi templari, giapponesi o le “compunte” serbe e croate o, anche, le “rigide”tedesche oltre che le evolute “olandesi”?

Le prime parole italiane imparate erano “merda!”, “vaffanculo”, “cazzo!”. E le imparavano, e qui torniamo al degrado da noi stessi “indotto”, perchè ad insegnarmele erano le giocatrici italiane della squadra, anche quelle più giovani e con gli occhietti, forse solo quelli, però, adolescenziali e innocenti.

In tutto questo sproloquio sul degrado, però, qual è il degrado di cui non si parla o si parla troppo poco?

È quello alla base di ogni forma di peggioramento della nostra vita quotidiana: il degrado culturale, di cui, oltre ai ceffoni e ai rimproveri assenti, che poi vogliono dire tempo dedicato ad osservare ed educare i nostri figli, sono responsabili le tastiere, di smartphone e tablet,  che continuamente pigiamo mentre dovremmo goderci una pizza e le chiacchiere con l’amico o l’amica di turno; e gli schermi di quegli stessi dispositivi che oggi fanno parte di noi stessi più della milza e che attraggono i nostri occhi più di un qualunque fatto reale che ci accada intorno.

Servi di quei tasti e schiavi di quei display abbiamo perso l’abitudine a guardare, per  apprezzare o criticare anche il suo apparire, chi ci è accanto o di fronte; ad ascoltare, per assorbire o contrastare, quello che dice, che ora anche lui o lei più non dice ma digita e che più non pensa ma legge sbirciando titoli e foto; a discutere con lui o lei per concordare o obiettare.

Ecco, quindi, il peggior degrado che ci affligge oggi e che, poi, è alla base di tutti gli altri, che nascono dall’indifferenza e dalla superficialità nel rapporto col mondo: il degrado di sostituire la parola con i like, di limitare il confronto agli emoticon.

Il degrado di guardare, quindi, e valutare solo e sempre quello con cui  il tuo interlocutore ti si mostra (titolo e foto del suo post o del suo scritto, fosse anche un bel gatto o una provocante… gattina o un seducente… leone) e mai  quello che c’è sotto, quando c’è: testo e pensiero.

Togliete titoli e foto e vedrete che, leggendo o ascoltando quello che c’è, o, peggio, non c’è, sotto titoli e foto, distribuireste i like e gli emoticon in man ieri ben diversa.