Fca, Gad Lerner sul FQ: adesso è nuda, l’inchiesta operaia nella fabbrica ex Fiat e prossima alla fusione con Peugeot

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FIAT: MARCIA QUARANTAMILA, CHIUSE LOTTE OPERAIE 1980/ SPECIALE Il corteo dei quadri e degli operai che il 14 ottobre 1980 sfilo' per le vie di Torino chiedendo la fine dell'occupazione sindacale della Fiat e il ritorno al lavoro dopo 35 giorni di scioperi. DI MARCO/ ANSA

“Parlano ancora di divisioni in classi: una sciocchezza. Mi fanno ridere quando ci chiamano padroni”. Era l’aprile del 1988 quando Cesare Romiti, con tono sprezzante, consegnava questa sentenza definitiva a Giampaolo Pansa, nel libro-intervista Questi anni alla Fiat subito balzato in vetta alle classifiche. Il manager romano che nell’autunno 1980 aveva sbaragliato i sindacati dopo i 35 giorni di resistenza operaia a Mirafiori, non si presentava solo in veste di condottiero della riscossa aziendale, ma per ciò stesso come salvatore della nostra economia, portavoce di un modello virtuoso da applicarsi anche alla gestione della cosa pubblica.

Oggi che possiamo verificare sul lungo periodo l’esito di quel conflitto sociale, culminato nella cosiddetta “marcia dei quarantamila” (non erano più di un quarto) del 14 ottobre 1980, la realtà ci appare ben diversa. L’equazione secondo cui “ciò che va bene alla Fiat va bene per l’Italia”, si è rivelata una grande bugia. Usufruendo di mano libera nella sua ristrutturazione e godendo di un decennio di enormi profitti, la multinazionale torinese scelse di impiegarli in operazioni di diversificazione finanziaria. Insieme al costo del lavoro, sacrificò la qualità dei prodotti e arretrò nell’innovazione tecnologica fino a ridursi sull’orlo del fallimento. Il Gruppo Fiat, che nel 1980 aveva in Italia 350 mila dipendenti, oggi ne conta meno di 80 mila. Ha dovuto far ricorso a ingenti finanziamenti pubblici, mentre il reddito dei suoi lavoratori subiva una netta decurtazione.

Conosciamo le conseguenze sociali e politiche della stagione in cui la sinistra ripudiava come anacronistico il ruolo di centralità assegnato alla classe operaia: un divorzio dal suo mondo d’origine che ne avrebbe più che dimezzato il peso elettorale. Ma quel distacco esistenziale, il progressivo disinteresse per le condizioni di vita e di lavoro di una classe falsamente descritta come in via di estinzione, ha prodotto anche un guasto culturale: in troppi si sono illusi che sacrificare la dignità e il valore del lavoro manuale fosse un prezzo inevitabile per garantire una crescita economica che, viceversa, ne ha subito un colpo letale.

Benvenuta, dunque, l’inchiesta operaia (esperienza desueta, ma preziosa) che oggi ci offrono la Fondazione Di Vittorio e la Fondazione Sabattini, a fotografare la presenza in Italia della Fiat divenuta Fca e prossima alla fusione con Peugeot. L’età media dei dipendenti supera i 45 anni, cioè l’età media del nostro già troppo vecchio Paese. Ben il 34% degli operai Fiat hanno fra i 40 e i 49 anni. Quanto al livello di istruzione, il 34,2% ha fatto solo la scuola dell’obbligo. Gli iscritti al sindacato sono meno di un terzo dei dipendenti.

Le circa diecimila interviste effettuate (il 20% della componente operaia) rivelano che solo il 12% dichiara di aver migliorato la propria condizione. Il 60% ne denuncia invece il peggioramento. Se il rinnovamento degli impianti ha prodotto, per fortuna, un calo degli incidenti gravi, si registra però il fenomeno dell’occultamento degli incidenti meno gravi, mascherati come eventi di natura diversa (malattia, ferie e permessi, infortuni in itinere). Negli ultimi tre anni solo il 57,9% degli episodi risulterebbero “regolarmente denunciati”.

Spostata ad Amsterdam la sede legale e a Londra la sede fiscale, l’azienda sotto la guida di Marchionne ha inaugurato il metodo Wcm (World Class Manufacturing) che in teoria dovrebbe superare l’organizzazione tayloristica e fordista della produzione. Ma i diecimila intervistati rilevano che ciò non ha incrinato il tradizionale modello gerarchico: spesso il team leader dei gruppi di lavoro tende a sostituire il delegato nel rapporto diretto con i vertici. Mirando a tagliare fuori i sindacati. In particolare la Fiom Cgil, che pure resta il sindacato con più tesserati, ha vissuto una lunga stagione di emarginazione dopo il suo rifiuto di sottoscrivere nel 2011 gli accordi aziendali. Tra gli intervistati ce n’è uno che, facendo strage della sintassi ma con notevole chiarezza, sintetizza così la situazione: “Gli operai vivono secondo me troppo la Fiom come se all’azienda fai un torto”.

Chi avrà ancora il coraggio di sostenere che tutto ciò abbia fatto il bene dell’Italia?

di Gad Lerner Il Fatto Quotidiano