Catapultati nel deserto, riscopriamo lo “Shemà Israel”

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Il virus ha chiuso le porte. Eppure, aspetti importanti della nostra vita vengono scoperchiati; si aprono i cassetti e qualche scheletro esce dagli armadi. Si va a caccia di mascherine; le maschere, invece, non reggono. Penso, ad esempio, al ménage familiare e ai rapporti di coppia. L’epidemia diventa epifania dell’umano.

Tra le varie emersioni, in questi giorni difficili, mi colpiscono molto le dinamiche connesse alla preghiera. Come pregano i cristiani nel 2020? Come si rivolgono a Dio gli uomini e le donne in un simile frangente storico? L’inedito scenario ha provocato atteggiamenti e prassi spirituali che dobbiamo rileggere.

Un primo nodo da affrontare rimane, a mio parere, il clericalismo. Cosa ha più senso nel giorno del Signore? La santa messa celebrata soltanto dai presbiteri e trasmessa in live stream, oppure una preghiera in famiglia, in cui l’adulto spezza e condivide il pane della Parola?

Una liturgia semplice e saporita, creativamente impreziosita da segni e azioni simboliche, consentiti dalla legge anche in tempo di pandemia, dentro le abitazioni. Gesù stesso radunò i discepoli per l’ultima cena in un contesto domestico. I nostri fratelli ebrei rivivono da sempre la Pasqua nelle case, e il ‘seder’ pasquale è una ritualità che innesca i processi genitoriali di narrazione e trasmissione della fede di padre in figlio. Qui scatta la domanda: quanto le nostre comunità sono reti che accompagnano e sostengono la crescita di una spiritualità familiare? Quanto incoraggiamo mamme e papà a “prendere la Parola”, evitando il meccanismo della delega? La dimensione orante e la testimonianza della fede non possono essere appaltate agli specialisti del sacro; e tantomeno a chi offende la preghiera con forme inappropriate di strumentalizzazione o di esibizionismo.

Altra questione. Se la quaresima è un tempo che mette al centro l’ascolto della Parola di Dio, questa quarantena ha scatenato flussi di preghiere motivati dall’ansia, dalla paura, dallo sconcerto. Niente di più naturale. Sarebbe molto triste, però, se la pietas dei cristiani fosse soltanto questo: un dinamismo che si sveglia a partire dal bisogno; la ricerca idolatrica di una forma utile e potente di invocazione.

Il COVID-19 ci ha catapultati violentemente nel deserto, dove lo Spirito conferisce ai nostri corpi la postura del silenzio, l’attesa di una parola educativa che viene da Dio. Il dialogo con Lui non è un accordo commerciale; è rigenerazione. La mia carne viene plasmata; assume la forma della giustizia e della tenerezza.

Ultima provocazione. Il rosario è un tesoro spirituale che i cristiani custodiscono con grande affetto. Eppure la Scrittura ci consegna una scuola di preghiera: il libro dei salmi, parole audaci che l’uomo rivolge all’Altissimo senza falsi pudori.

Si prega con il corpo, con tutte le emozioni, con ogni modulazione della voce: il grido, il gemito, il bisbiglio, il canto di lode. Alcuni salmi e molti testi biblici sembrano uno specchio: il dramma epocale che stiamo vivendo diventa un deserto attraversabile, grazie alla compagnia di un Amico, il cui nome è una promessa di fedeltà.

I social, “virali” per natura, aumentano esponenzialmente i messaggi, le parole, i commenti. Sarebbe terapeutico ritrovare insieme la fonte della preghiera in quel monito, tanto caro al popolo della prima alleanza: “Shemà Israel!”. Ascolta Israele.

*Abate di Bassano del Grappa

Questo è il secondo contributo di riflessione proposto da don Andrea Guglielmi. Il primo è disponibile sul nostro sito cliccando qui.