“Canzoni che raccontano la Storia” dell’Italia: prima puntata con “Le parole incrociate” di Dalla e “U rancuri” musicata da Otello Profazio

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L’idea di questo progetto è quello di scegliere alcune canzoni che possano raccontare la storia del nostro paese (qui tutte le puntate a partire da questa di “Canzoni che raccontano la Storia“.

Ma quali canzoni? E quale storia? Quella raccontata attraverso inni e “marce trionfali” più o meno agiografiche con una narrazione ufficiale dei grandi fatti della nostra storia, delle guerre, delle devastazioni, degli eroismi che si sono susseguiti negli anni e proprie dei libri di scuola? O con qualcosa d’altro?

In quell’altro si possono trovare diverse interpretazioni della storia. Magari di quella storia considerata minore, quella vissuta da chi fatica per vivere, quella di chi ha subito la violenza dei “grandi fatti”, delle repressioni, delle tragedie del lavoro, delle aspirazioni di chi voleva un futuro diverso. Di chi ha preso parte alla storia magari inconsciamente, nel ruolo di comparse o comprimari presi in mezzo da cose più grandi di loro. La storia di chi, rifiutando l’indifferenza, quella storia l’ha, di fatto, forgiata. Sono tanti gli artisti, gli interpreti, i cantautori che hanno sentito il bisogno di narrare le storie che vivevano o che qualcuno gli aveva narrato in una maniera diversa e, magari, poco ortodossa.

Forse parlando d’altro, hanno descritto quello che gli succedeva intorno. Sono nomi famosi e altri meno noti, almeno in questo periodo. Artisti che, comunque, ci hanno regalato emozioni che fossero diversi dalla rima “cuore, amore” o dalla banalità della ripetizione degli stereotipi dello spettacolo che cerca il facile successo.

Ma da dove partire? Inizialmente pensiamo che sia interessante presentare due canzoni pubblicate negli anni ’70 del secolo scorso. Raccontano parti meno note della storia dell’unità d’Italia. Parlano della crudeltà del potere, di brutali interventi militari contro i “poveracci”. Contro quelli che dovremmo considerare veri padri della patria ma che sono stati obbligati alla fatica e all’insulto di un potere che non li considerava se non “carne da cannone” o “braccia da sfruttare”.

La musica della prima canzone (video in copertina) è composta da Lucio Dalla, il testo è del poeta Roberto Roversi. Viene pubblicata nel 1975 nel disco “Anidride Solforosa” di Dalla e narra la storia minore del risorgimento. O meglio, ricorda dei fatti che l’agiografia eroica ufficiale ha volutamente dimenticato. Sono episodi che vedono la brutale repressione verso il popolo che viene massacrato per decisioni superiori e “supreme”.

Questo è il testo che racconta e riassume, senza troppi giri di parole, un risorgimento “poco glorioso”, specialmente per quei “poveracci” che si aspettavano ben altro:

LE PARORE INCROCIATE

Chi era Bava il beccaio? Bombardava Milano
Correva il ’98, oggi è un anno lontano
I cavalli alla Scala, gli alpini in piazza Dom
Attenzione, cavalleria piemontese, gli alpini di Val di Non

Chi era Humbert le Roi? Comandava da Roma
Folgore della guerra, con al vento la chioma
La fanteria stava a Mantova, i bersaglieri sul Po
Attenzione, fanteria calabrese, i bersaglieri di Rho

E chi era Nicotera, ministro dell’interno?
Sole di sette croci e fuoco dell’inferno
All’Opera il Barbiere, cannoni a Mergellina
Attenzione, spari capestri e mazze da sera alla mattina

Di pietra non è l’uomo
L’uomo non è un limone
E se non è di pietra
Non è carne per un cannone
Cavallo di re
La figlia di un re
L’ombra di un re
La voglia di un re
Soltanto chi è re può contrastare un re
Il gioco dei potenti e di cambiare se vogliono anche la corsa dei venti

E i limoni a Palermo? Pendevano dai rami
Coprendo d’ombra il sangue di poveri cristiani
Chi era Pinna? Un questore, a Garibaldi amico
Attenzione, fucilazioni in massa, dentro al castello antico

E la tassa sul grano? Tutta l’Emilia rossa
S’incendia di furore, brucia nella sommossa
Stato d’assedio, spari, la truppa bivacca
Attenzione, lento scorreva il fiume da Cremona a Ferrara

Che nome aveva l’acqua trasformata in pantano?
Macello a sangue caldo di popolo italiano
Un’intera brigata decimata sul posto
Attenzione, i soldati legati agli alberi, agli alberi del bosco

L’uomo non è di pietra
L’uomo non è un limone
Poichè non è di pietra
Neppure è carne da cannone
Quando la vecchia carne voleva
Il macellaio fu presto impiccato
Un re da cavallo è anche sbalzato
E in mezzo al salnitro precipitato
Come al tempo del grande furore
Quando il vecchio imperatore a morte condannava chi faceva l’amore

Sei le colonne in fila, il gioco è terminato
Nel bel prato d’Italia c’è odore di bruciato
Un filo rosso lega tutte, tutte queste vicende
Attenzione, dentro ci siamo tutti, è il potere che offende

 

La seconda canzone (video a seguire) è in lingua siciliana e si intitola “Io faccio il poeta”. Musicata da Otello Profazio su un testo tratto dalla poesia di Ignazio Buttitta “U rancuri (discorso ai feudatari)”. Racconta anch’essa la brutalità e la ferocia del potere costituito (e della mafia) contro i contadini siciliani costretti a sputare sangue per chi “ha i feudi”, ad andare in guerra per un re che non conoscono, ad essere uccisi se protestano. Una storia vista dalla parte degli ultimi che non hanno né consolazione né futuro. Un bellissimo e tragico spaccato della lotta tra ricchi e poveri, tra “feudatari” (padroni delle terre) che vivono in case lussuose davanti a panorami meravigliosi e contadini che hanno il “collo cotto dal sole”, persone che non riescono a sfamare i figli e che continueranno ad essere schiavizzati. Uomini e donne che, agli occhi dei potenti, non sono esseri umani ma contano meno di bestie da soma e di compagnia.

Del testo in siciliano si riporta la “traduzione” in italiano: 

IL RANCORE (U RANCURI)

Che mi raccontate?

io faccio il poeta!

C’è aria di tempesta

lo so,

la vedo:

il maroso salta gli scogli,

il cielo avvampa!

 

Che mi raccontate?

Io amo la pace;

e questa casa in faccia al mare

con Palermo nelle braccia,

le montagne in testa,

e gli uccelli che passano e salutano.

 

Voi nelle città,

dentro i palazzi moderni

coi servitori in divisa,

con le donne in vestaglia,

belle,

e le tette dure.

Nei palazzi e nelle città,

cagliati dal piacere;

con i cani e i gatti

che saltano sulle gambe,

che giocano sui divani;

che mangiano come voi,

e cacano negli angoli.

 

Io vi considero,

e forse

arrivo a scusarvi:

il privilegio piace,

la tradizione dell’abuso

la disumanità

lo sfruttamento piace,

l’avete nel sangue;

e vorreste rimanere a cavallo

con elmo e scudo

e le spade puntate;

crociati dell’ingiustizia,

a massacrare i poveri.

 

Io vi considero,

ho la faccia tosta!

Sono i braccianti che v’odiano,

i disoccupati a turno;

all’asta nelle piazze

ad aspettare un padrone

che pretende il baciolemani.

Sono i senzaterra,

le nuche cotte al sole che v’odiano,

vogliono i feudi:

il vostro sangue sigillato nelle carte,

un cieco ci legge!

I feudi,

che guardate col cannocchiale,

e nuotano nell’aria.

 

Sono ladri!

Non lo dico io

loro lo dicono:

“Siamo ladri,

ce lo insegnaste voi.”

Non lo dico io

loro lo dicono:

“I nostri nonni

i nonni dei nostri nonni

i nostri padri

si alzavano all’alba;

facevano la strada a piedi,

tornavano con il buio,

dormivano quattro ore.

 

Voi dovete dormire quattro ore

zappare quattordici ore

desiderare il pane

torcere le camicie

strisciare il muso per terra

sputare il sangue dai polmoni,

voi!

 

Voi dovete stringere ossa di femmina

sognare miseria

lamenti

disperazione;

darvi pugni in testa,

voi!”

 

Non lo dico io

loro lo dicono:

“Se uscissero dalle fosse

i nostri morti

vi impiccherebbero;

vi brucerebbero vivi!

 

Vi metterebbero la cavezza

la sella grezza

il sottopancia

gli speroni a bilancia

le mosche cavalline;

e legnate sulle reni,

sulle reni!”

 

Non lo dico io

loro lo dicono:

“Facevate le guerre,

(le fate ancora

ai poveri di dentro

e ai popoli di fuori)

il re mandava la cartolina,

ordinava la mobilitazione;

le madri accompagnavano

i figli alla stazione,

le mogli il marito;

i bambini piangevano,

e voi battevate le mani.

 

Arrivavano al campo,

il generale faceva il discorso;

il prete diceva la messa,

dava i santini,

l’infervorava:

‘Chi muore qui,

sale nel cielo’,

e alzava il dito.

 

Lo diceva per celia;

i morti restavano sottoterra,

schiattavano;

le donne si vestivano a lutto,

si scorticavano le ossa;

maledicevano l’inferno,

il paradiso;

i figli

guardavano il ritratto sul muro,

il ritratto del guardiano della casa

morto.

 

Non lo dico io

loro lo dicono:

“Gli facevate il monumento,

scrivevate l’epigrafe:

nome

cognome

grado:

Morti per la patria”.

 

Scaracchiano una bestemmia:

“Morti per i padroni!

Per i porci grassi!

Per i lupi!”

 

Non lo dico io

loro lo dicono:

“Finiva la guerra,

i vivi tornavano;

i ciechi

i sordi

i muti,

i pazzi tornavano;

tornavano quelli con le gambe tagliate,

gli sfregiati,

i senzabraccia;

gli appendevate le medaglie,

– le frattaglie sul petto –

e li facevate sfilare;

la banda suonava:

viva il re!

viva il re!

e voi battevate le mani.”

 

Non lo dico io

loro lo dicono:

certe volte piangono,

si mordono le mani;

io mi commuovo.

“Tornavano nelle tane” dicono,

“Tornavano a mangiare erba,

a scaricare barili di sudore,

a ingravidare coniglie magre;

le coniglie figliavano conigli,

l’erba non bastava.

 

Se uscivano dalle tane

con le unghie di fuori,

con il ritratto del re,

con le bandiere tricolori;

con i bambini ai capezzoli

che poppavano succo d’erba amara,

si scatenava la carneficina:

mandavate i carabinieri,

i soldati italiani

a sparare sugli scheletri:

accendevano con un fiammifero,

puzzavano nelle piazze!

 

Veniva il carrozzone,

raccoglieva l’immondizia,

il prete la benediceva:

requièscat in pace,

e l’immondizia saliva in cielo.

 

In cielo si riuniva la ‘Corte’:

giurati

magistrati

presidente,

e facevano il processo:

ascoltavano la parte lesa,

i testimoni,

la difesa:

usciva la sentenza,

assolti!

 

Comparivano gli angeli;

gli angeli gli prestavano le ali,

San Pietro apriva le porte,

e l’immondizia entrava in paradiso.”

 

Non lo dico io

loro lo dicono.

Io il poeta faccio:

cammino sulle nuvole,

leggo nel cielo,

conto le stelle,

parlo con la luna:

salgo e scendo!

Il poeta faccio:

tesso, ricamo, cucio, scucio:

rammendo con fili d’oro!

 

Adorno, liscio, lustro:

decoro senza colori!

 

Intreccio fiori,

addobbo altari,

pianto bandiere:

abbellisco il mondo,

calmo il mare con la voce!

 

Sono un giardino di fiori

e mi spartisco a tutti;

una cassa armonica

e suono per tutti;

un agnello svezzato

e piango per tutti gli agnelli svezzati.

 

Che mi raccontate?

io il poeta faccio:

amo le tavole imbandite,

le donne, i piaceri, il lusso.

Amo il denaro:

(la bomba atomica nelle mani dell’uomo,

nel cuore dell’uomo

e non scoppia!)

 

Il poeta faccio,

e voglio la pace nella mia casa

per dimenticare la guerra

nelle case degli altri;

la quiete nella mia casa

per dimenticare il terremoto

nelle case degli altri:

sono un cane della vostra razza!

 

Non mi manca niente,

non desidero niente;

solo una corona

per recitare il rosario la sera,

e non c’è nessuno

che me la porti di filo di ferro

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Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.