Arte culi ‘n aria, le ricette di Umberto Riva fanno 13: regalie o frattaglie, anche gli dei… mangiavano alla vicentina

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Arte culi 'n aria
Arte culi ‘n aria

“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 28 dicembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon.

Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva (i sparasi dde Bassan) rileggi la Prefazione e il glossario di arte culi ‘n ariauna nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola vedi qualcosa di più.


Le interiora degli animali sono i generatori della vita. Forse per quello si offrivano sugli altari agli dei. Fegato, polmoni, cuore. Intestini, pancreas, stomaco. Anche il cervello. Gli dei gradivano perché gli dei erano dei buongustai e volevano il meglio.

Lettore di "Arte culi 'n aria", ricette e biografia di Umberto Riva
Lettore di “Arte culi ‘n aria”, ricette e biografia di Umberto Riva

Certo, quando si andava dal macellaio i sacrifici agli dei non suscitavano attenzione alcuna. “Signor Francesco, due chili di trippa mista, anche i doppioni, mi raccomando”. “Mi salva del polmone signor Francesco!” era la raffinata figlia della moglie del direttore didattico.

A Vivaro di Dueville c’è ancora una strada che si chiama “via Buseca”. In fondo a quella via c’era un’osteria in una vecchia casa colonica, con campi da bocce al posto dell’aia. Si chiamava, indovina un po’, “Alla Buseca”. Il piatto forte, credo l’unico, era la “coradea in umido” con “poenta fresca”. Come dire polmone di vitello in umido con polenta appena fatta. Pensare che a Milano “buseca” significa trippa, mentre il polmone cotto è chiamato “curada”.

A proposito di trippa. La trippa, che passione. Doppione, sfogliata o mille foglie. Il misto.

Trippe in brodo. “Oggi trippe” si leggeva sulla porta delle osterie del centro città. Su tabelle di smalto bianco e scritta nera o bleu “OGGI TRIPPE”, era il giorno di mercato. Alla Vecchia Guardia od alla Bella Vicenza e tante altre. Era il giorno dei ”sensari”. “Le tripe buje ‘e fa bel a la fame e le smaca el vin”.

Da “Toni dal Spin” alle “becherie” a Treviso le trovavi mantecate. La ricetta era del “sior Remo de Vicensa”. Predevi delle trippe bollite al punto giusto e scolate, le mettevi tra due piatti fondi con uno ed anche due spicchi d’aglio, ti accomodavi su una sedia e, per non sporcarti mettivi un canovaccio su una coscia, giusto quella coscia sulla quale ritmicamente sbattevi quei due piatti fondi con contenuto. Quando si era formato il latte, lo si scolava e si condiva con “parsemolo, ojo, e magari un gioso de aseo de queo co ‘a mara”.

Ma la morte delle trippe era l’umido. “Trippe in umido con polenta e “vin bacò”.

La mamma preparava. tutto ben spezzettato, cipolla, carota, sedano in grande abbondanza. Quando le verdure erano ammorbidite buttava “ne ‘a tecia de tera cota”: trippe e conserva Muti, “Do broche de garofano e ‘na scianta de peare”. La trippa fatta “pipare soto el covercio par un saco de tempo, co poenta servia co ‘l cuciaro e un mucio de lensa”.

Che gioia.

Raffinatezza, il fegato alla veneziana.

Il fegato di vitellone “’na montagna de ceoa e na scianta de salvia, ‘na crose de ojo ma miga tanto ”. La variante era il “fegato a la barcarola” un po’ più povero perché bastava “el fegato de vaca meso biciere de vin, de più ceoa e farge vedere solo l’ojo che ‘l costa”, ma altrettanto “bon”.

Il cuore era per chi aveva la “brasolara” e “xera ‘na roba da siori”. Però, “volendo, ogni tanto, fare un strapo” bastava anche la “farsora”. “La farsora” era particolarmente usata “ par fasenare el colo de l’oco” e non solo dell’oca.

Quando si tirava il collo a pennuti preferibilmente grossi, anche “caponi” tanto per capirci, li si metteva appesi ad una trave con la testa all’ingiù cosicché il sangue fluiva tutto nel collo e nella testa della bestia. Non appena si fosse rappreso, il sangue, si tagliava il collo alla base del corpo procedendo come segue: si incideva la pelle tutto attorno raso al corpo, si spingeva in giù la pelle stessa, quindi si recideva la parte ossea ad un paio di centimetri più in sotto; si aveva così la pelle più lunga della parte ossea e la possibilità di chiudere il collo con lo spago come se fosse un cotechino, niente così poteva uscire quando si metteva il collo a bollire con tutte quelle parti di carni bianche e rosse con relative ossa. Il sangue crea schiuma e questa non è buona cosa.

Il collo lessato non veniva servito col bollito. Lo si metteva a raffreddare e quando lo si voleva mangiare lo si “fasenava”. Ovvero: con un buon coltello lo si apriva in due per lungo, testa compresa, lo si metteva “in composta con sae peare e ojo” dopo qualche ora si prendeva la “farsora de fero nero” la si portava a temperatura notevole e quindi vi si stendeva le due parti del collo. Si ricuoceva. “Colo de oco fasenà” ottimo con “poenta freda e verse boie”.

Cosa pretendevano ancora gli dei? Il cervello.

Era un piatto che con il pancreas era apprezzato dai consumatori non più giovani, sì perché sapeva da “freschin” anche se lo si faceva fiorire con il limone “imbaosà con ovo sbatù e pan gratà” dopo averlo tagliato a pezzettoni. A me piacevano le polpette che si facevano con l’uovo e il pane avanzato dall’operazione “imbaosamento”.

Bisogna proprio dirlo: gli dei la sapevano lunga.

I francesi le chiamano ratatouille noi regalie, ma, “xe mejo, “buee, dureo, figà e queo che ge sta torno”.

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