Arte culi ‘n aria, la ricetta vicentina n. 12 di Umberto Riva: “Poenta e osei”, una memoria lunga un anno

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Un lettore che si "gusta" Arte culi 'n aria
Un lettore che si “gusta” Arte culi ‘n aria

“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 26 dicembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon

Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva (i sparasi dde Bassan) rileggi la Prefazione e il glossario di arte culi ‘n ariauna nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola vedi qualcosa di più.


Una festa, una di quelle grandi. “Poenta e osei”.

Venivano cotti in “tecia” (tegame solitamente in terracotta). Così ce n’era per tutti e di più.

Arte culi 'n aria
Arte culi ‘n aria

Normalmente erano passeri comperati già pelati in Piazza delle Erbe, in autunno. All’interno veniva lasciato il “dureo” (stomaco detto anche per i volatili, durello) così acquisivano quel gusto amarognolo che tanto doveva piacere. Il durello (lo stomaco), però, non si doveva masticare, ma solo “ciuciare” (succhiare) se non volevi impestarti la bocca. Le dosature: tre uccellini per il papà, due a testa per madre e figli. Tanta “poenta onta” (polenta fritta).

Era un piatto serale.

Nella mattinata veniva perfezionato l’acquisto da quel banchetto, tra i quattro o cinque esistenti in Piazza delle Erbe, in autunno nel periodo di caccia. Così si faceva da anni tutti gli anni. La “siora” (signora), venditrice e pelatrice, con lungo vestito nero dai fiorellini stampati, grembiale grigio scuro, fazzoletto nero a racchiudere una chioma che da quanto dava ad intendere qualche ciuffo ribelle, era pepe e sale, salutava come se ti fossi visto il giorno prima e non l’anno prima,. Sapeva che li volevi pelati tutti di taglia media e tutti della stessa grossezza, “così i se cusina gualivi” (la cottura risulterà omogenea). Quando i soldi finivano nella scatola di latta da cioccolatini di Majani, ti ignorava e riappoggiava le immense natiche sulla sedia impagliata con lo schienale intagliato e ricominciava a “peare” (pelare) uccelli per tutti coloro che li  volevano pelati.

Importante era preparare in mattinata la polenta. Doveva essere morbida, bassa. Veniva ricoperta da un tovagliolo perché non facesse crosta a contatto con l’aria mentre si raffreddava. Anche gli uccelli subivano il dovuto trattamento. Si schiacciava loro la pancia per la fuoriuscita degli escrementi e di quella parte di intestino che li conteneva. Attenti al “dureo”. Per pulirli si usava uno straccetto umido dopo averli ripassati uno ad uno per levare quel pò di “spiumoti” (peluria tipica dei volatili) che la “siora” nel far le cose veloci, aveva lasciato. Importante era non lavarli sotto il rubinetto ché si poteva perdere il sapore tipico della cacciagione. Il lardo tagliato fino e preparato a quadratini “’e lardee” (lardo tagliato fine ed a pezzetti) e poi la salvia ben mondata ed asciugata. Lo stuzzicadenti univa due uccelletti separati da due foglie di salvia e da tre lardelle intercalate di modo che a contatto con la carne fosse il lardo, alle estremità due lardelle per parte con in mezzo l’immancabile fogliolina di salvia. Il tegame, in smalto, ma assai meglio, in terracotta, veniva messo al fuoco all’inizio col coperchio ché, quando quelle fettine di lardo messe sul fondo avevano rilasciato il grasso, doveva quasi sparire. Cominciava solo allora, una lenta cottura nell’angolo della “stua” (cucina economica). Gli uccelli trovavano così giusta fine per la loro storia.

Quasi in contemporanea iniziava, per un’unica preparazione, il rito “poenta onta”. Quella gloriosa crema di mais che dalla mattinata riposava, ben coperta dal tovagliolo di cotone, sul panaro (tagliere), veniva tagliata a fette e fatta riposare, sempre ben coperta, e per qualche tempo. Questo perché l’acqua che si formava nel taglio, potesse evaporare, si doveva evitare che l’acqua a contatto con il condimento bollente “el sfritegase sciansando la cusina” (friggesse schizzando la cucina). Al giusto momento la padella era pronta con un pò, pochissimo per la sua preziosità, d’olio, con i ritagli delle lardelle e le cotiche, veniva posta al centro della stufa “sora i serci” (sopra i cerchi) con coperchio per permettere al lardo di sciogliersi senza bruciare. E via! La polenta si impreziosiva di una crosta così saporita da fare ampiamente concorrenza al gusto degli uccelletti. “Varda ‘a se gonfia come ‘n grostolo” (guarda si gonfia come un crostolo, dolce carnascialesco).

Il paradiso era volato in terra.

Alla fine sui piatti trovavi solo “beki e durei ciucia” (becchi e durelli succhiati).

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