Morire di lavoro: i quattro della Lamina fanno notizia, le altri 31 morti bianche fino ad oggi rimangono anonime…

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In 18 giorni sono 35 i morti per infortunio nei luoghi di lavoro col quarto operaio deceduto alla Lamina di Milano. La strage continua. Questa tragedia del lavoro ha avuto risalto sugli organi di informazione nazionali e no. Giusto! Subito sono state riportate le condoglianze di chi occupa i più alti incarichi istituzionali. Tutti a commuoversi, a battersi il petto, a giurare e spergiurare che bisognerà pur fare qualcosa, a dichiarare che non si può morire così. Che bisogna investire nella sicurezza, educare…

Già oggi tutto o quasi sta tornando al silenzio. A quel colpevole torpore che nasconde le cosiddette “morti bianche” (un modo “elegante” e “asettico” per definire quelli che sono troppo spesso e troppo simili a omicidi). Tutto torna in quella normalità che vuole queste morti derubricate a fatalità, a una sorte malevola che non ha nessun responsabile. Che succedono perché “è così”, perché “è sempre successo”, perché “è normale” considerare il lavoro sempre e comunque “pericoloso”.

Quattro lavoratori morti in un solo incidente è qualcosa che, comunque, fa notizia. E bisogna scrivere qualcosa.

Ma si sappia che ci sono decine di lavoratrici e lavoratori che muoiono ogni mese a causa di infortuni nei luoghi di lavoro. Sono già oltre 30 da inizio anno. E sono persone senza nome né volto. Persone, sì, che nuoiono da sole, per le quali chi “occupa” le istituzioni non versa neanche una lacrima, non pronuncia nessuna frase, neppure quelle di circostanza che hanno detto qualche giorno fa per i tre operai morti a Milano.

E questo è sconvolgente. Intollerabile che sempre e comunque si muoia per lavoro e di lavoro. Intollerabile che non si faccia poco o nulla. Intollerabile che, passate qualche ora dal fatto, tutto ritorni come prima. Intollerabile che il lavoro sia diventato una condanna. Intollerabile che la sicurezza sia considerata un costo. Che la stessa vita umana sia, per “lorpadroni”, un costo. Intollerabile che siano il “mercato” e il “profitto” a dettare le regole della vita di ognuno di noi.

Intollerabile, infine, che il solo obiettivo che ci vogliono costringere a perseguire sia quello del “dio mercato” e del profitto ad ogni costo.

Ricominciamo a pensare.

Il lavoro non può essere una condanna. E neppure un fine (e, per molti, la fine della vita). Il lavoro è un diritto. Il primo diritto costituzionale. Uno strumento che permetta la crescita personale di ognuno e collettiva di un popolo. Il lavoro non può né deve essere mai schiavitù né sfruttamento.

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Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.